Un veneto coordina gli aiuti al Pakistan "Dramma dimenticato"

Tratto da "Il corriere della sera" di Domenica 10 Ottobre 2010



















di Fausto Pajar

E' veneto l'uomo che coordina gran parte degli aiuti italiani al Pakistan devastato dalle alluvioni provocate dalle piogge monsoniche di agosto. Quelle alluvioni che il primo ministro Yousuf Raza Gilani, andando in tv, ha detto che hanno colpito venti milioni di suoi connazionali, quasi il 12% dei 170 milioni di cittadini dell'intero Stato asiatico, tentando con le cifre di richiamare l'attenzione del mondo su una tragedia di dimensioni bibliche che, diversamente dallo tsunami del 2005 e dal devastante terremoto di Haiti del gennaio scorso, non ha fatto breccia - come doveva - nell'immaginario delle nazioni ricche dell'Occidente. L'uomo veneto dei soccorsi, che questa situazione l'ha verificata personalmente e la conferma, è Marco Rotelli, classe 1974, nato a Schio (Vicenza), laurea in scienze politiche e realazioni internazionali in Italia a Francia, vocato alla cooperazione internazionale e all'aiuto umanitario, direttore generale di Intersos Ong, con esperienze in Africa e Asia in situazioni di crisi e aree di conflitto. In sostanza una giovane vita tutta spesa tra guerre e disastri per portare aiuto, per mediare nelle relazioni tra civili e militari, per integrare programmi umanitari di emergenza con quelli di postemergenza e sviluppo. A lui, al rientro momentaneo dal Pakistan chiediamo di precisare la situazione.
"Il Pakistan - afferma Rotelli - oggi è un Paese in ginocchio. I monsoni hanno scaricato enormi quantità d'acqua che ha travolto e allagato un'area più vasta dell'intera Italia e coinvolto 20 milioni di persone lungo il suo correre dai monti del Karakorum e Indu Kush e il mar Arabico. Circa il 70% delle riserve agricole del Paese sono andate distrutte. Gran parte del bestiame d'allevamento è morto annegando nelle acque e nel fango o a causa della quasi totale assenza di cibo. Lo strato fertile è stato dilavato da moltissimi campi in una zona a grande vocazione agricola. Si tratta di un'emergenza che dura da oltre un mese e che sta mettendo a dura prova la resistenza delle persone e del sistema dell'aiuto, nazionale e internazionale, che tra l'altro ha ricevuto solo la metà dei fondi necessari a far fronte ai gravissimi problemi in termini di salute,agricoltura, alloggio, cibo e via dicendo. Nei campi di sfollati e nei villaggi si stanno diffondendo rapidamente molte infezioni e malattie respiratorie, degli occhi e della pelle e purtroppo i più esposti sono i bambini e le madri".

-In quale località avete situato la base operativa?
"La zona operativa è stata scelta sulla base di criteri molto semplici: gravità della situazione e possibilità e qualità dell'intervento che saremmo stati in grado di realizzare. Sono state quindi scelte le aree alla confluenza dei due maggiori fiumi causa del disastro: il fiume Indo e il fiume Kabul. L'area dei distretti di Charsadda e Mowshera non lontano da Pesawar sono infatti tra le più colpite, dove la devastazioni e la perdita di vite umane è stata tra le più violente. E' anche un'area che personalmente conosco abbastanza bene, avendo già lavorato in Pakistan negli anni scorsi e questo facilita un po' l'aziene potendo contare su una rete di contatti e collaboratori".

-Da quante persone è formato lo staff di intervento Intersos in Pakistan?
"In crisi del genere cerchiamo di predisporre una squadra piccola e dinamica aggiungendo collaboratori a seconda delle azioni che dobbiamo sviluppare. Per definire l'area, le modalità e i tempi di un'operazione, ad esempio una distribuzione di cibo, possono bastare 4 o 5 persone. Per svolgerla invece, è necessario distribuire il lavoro a circa 30 persone, dagli autisti dei camion agli addetti alle liste di distribuzione, allo scarico del materiale e così via. Generalmente molti di questi aiutanti provengono dalla comunità che si intende aiutare assicurandosi che la comunità stessa sia così pienamente coinvolta nelle operazioni a loro beneficio e non sia un mero ricevente dell'aiuto".

-In quali stettori siete specializzati?
"Abbiamo competenze diverse: logistiche, di protezione dell'infanzia e dei disabili, che in queste condizioni rischiano di venire esclusi dall'accesso agli aiuti, e infine di coordinamento, per assicurarsi che tutti si muovano secondo un piano comune sapendo perfettamente cosa fanno gli altri e dove devono intervenire loro".

-Ci sono anche altri veneti oltre a lei?
"In questo caso la squadra internazionale è tutta italiana. Abbiamo collaboratori liguri, trentini, laziali, ma per ora sono l'unico rappresentante del Veneto".

-Quali interventi avete già compiuto in quei luoghi?
"Abbiamo diviso l'operazione in tre fasi: prima emergenza, riavvio della normalità e ricostruzione. La prima sta lasciando spazio alla seconda, infatti se in alcune zone è ancora necessario distribuire cibo, acqua potabile e beni di primissima necessità, come pentole e stoviglie, in altri villaggi, dove le persone sono tornate alle loro case distrutte, si stanno organizzando dei piccoli sistemi di distribuzione dell'acqua e si stanno fornendo i materiale di base per costrtuire un tetto sotto il quale allestire almeno una stanza temporanea. Per la terza fase ci stiamo organizzando per intervenire a supporto del riavvio dei mezzi di sostentamento delle famiglie, in particolare supportando la ripresa della produzione agricola. Questo è un aspetto fondamentale. Solo se gli agricoltori saranno in grado di seminare e produrre, potranno garantirsi il futuro. Se noi falliremo questo obiettivo, il Paese scivolerà ancora più in basso, avrà bisogno di assistenza alimentare".

-Avete portato con voi materiali, quali?
"Questa cristi ha colpito il Pakistan soltanto pochi mesi dopo il terremoto di Haiti. Molte organizzazioni non aveno ancora raccolto fondi sufficienti per ripristinare i magazzini di materiali per l'emergenza. E' stato quindi necessario acquistare tutto direttamente in Pakistan, nelle zone non colpite e trasportarlo nelle zone di intervento. Abbiamo acquistato cibo, in particolare farina in sacchi, trasportato con cisterne l'acqua potabile per alimentare dei gossi serbatoi e conseguentemente le taniche di ogni famiglia. Stiamo procurando ghiaia, zappe, badili per ripristinare alcuni tratti di strade indispensabili alle famiglie per raggiungere i mercati e riprendere le attività. Infine stiamo procurando travi, teli di plastica e tegole per ricostruire i tetti delle case e piccole attività commerciali".

-Lei ha detto che non c'è solo il problema dell'acqua: quali altri problemi dovete affrontare oltre alle conseguenze dell'alluvione?
"Il Pakistan, in particolare, nelle zone citate, vive da anni una situazione di grave crisi politica. La zona di confine con l'Afganistan è molto turbolenta e insicura. Gli attentati si susseguono. Quelli gravi sono quasi quotidiani in questo periodo. L'attività di matrice talebana è un problema ben più noto di questa alluvione e di certo non semplifica l'azione umanitaria. Alcune aree sono di difficle accesso proprio a causa dell'insicurezza e delle minacce, ed il risultato è che la gente rischia di non ricevere l'aiuto. In questo momento si sta giocando una partita molto importante. L'aiuto umanitario ha tutte le possibilità di dimostrare tutti i valori che lo spingono e lo motivano. La solidarità internazionale, l'indipendenza, la neutralità e l'imparzialità. Le persone hanno molti bisogni e altrettante aspettative. Se a causa degli scarsi finanziamenti a questa crisi pressoché ignorata dai media italiani, non riusciremo a rispondere venendo incontro alle aspettative delle persone colpite, lo farà certamente quancun altro, riempiendo un vuoto che avremo lasciato noi occidentali, incapaci di accorgerci della gravità della situazione e di rispondere con quella convinzione e determinazione che ha permesso di raggiungere grandi risultati in altre catastrofi. Per citarne due: terremoto di Haiti e tsunami dell'Oceano Indiano. Abbiamo la possibilità di essere concreti e di dimostrare che i nostri valori si traducono in aiuto reale e tangibile dove e quando serve. Arrivare a mani vuote significa infrangere aspettative di chi dell'aiuto ha comunque bisogno e lo sercherà altrove".

-Noi cittadini comuni cosa possiamo fare eventualemente per alleviare le sofferenze e le difficoltà della gente colpita dagli eventi catastrofici in Pakistan?
"Sono proprio i cittadini comuni che fanno la differenza. La prima cosa da fare credo sia una riflessione. La seconda un'azione. Non esistono dolori di serie A o d serie B. Se vogliamo aiutare persone che soffrono, in questo momento in Pakistan c' è bisogno di aiuto e subito. Quello che mi preme sotolineare è che le vittime e le persone coinvolte in queste situazioni sono le famiglie. Non i governi, non gli eserciti. E le famiglie, come ovunque nel mondo, sono composte da bambine, bambini, madri, padri, anziani. Ognuno di noi può entrare in azione edare un aiuto concreto tramite le organizzazioni che sono al lavoro direttamente sul posto e che trasformano i contributi in sacchi di farina, in taniche d'acqua, in medicinali e via dicendo. L'organizzazione INTERSOS ha aderito all'apello di AGIRE, l'Agenzia italiana per le risposte alle emergenze, rete di organizzazioni che insieme hanno scelto di unire le forze per rispondere in modo tempestivo alle grandi emergenze umanitarie. E' possibile darci i mezzi per aiutare le persone in Pakistan con un semplice Sms di due euro al 45504 da Tim, Vodafone, 3, CoopVoce e Noverca o da rete fissa Telecom Italia fino al 27 settembre. Gli approfondimenti sono sul sito www.intersos.org e www.agire.it ".

-Probabilmente il discorso non si esaurisce qui. C'è anche qualcosa da aggiungere.
"La copertura dei media italiani di questa crisi è stata straordinariamente bassa e, anche a causa di questo, molte persone non hanno realmente capito la gravità della situazione. Purtroppo la crisi continua. L'equivalente di un terzo della popolazione italiana è in grave difficoltà e non è possibile rimanere fermi. Un aiuto da parte di tutti è ora determinante".

Il Gazzettino Illustrato: Venezia - Heysel andata (e ritorno)


Il Gazzettino Illustrato: Venezia - Heysel andata (e ritorno)


Il Gazzettino Illustrato: Venezia - Heysel andata (e ritorno)

Me la ricordo bene quella sera che diavoli sono usciti dall'inferno a danzare, macabri e truci, sugli spalti fatiscenti dell'Heysel a seminare la morte tra inermi famiglie di italiani accorse a vedere, lassù in Belgio, la finale Juve-Liverpool di Coppacampioni. Me la ricordo bene. Non si dimenticano i momenti assurdi in cui la morte di passa accanto e lascia sul terreno i segni del suo transito feroce e assurdo.
La notte riporta ancora l'incubo di quei corpi che rotolano giù dagli spalti mentre il pallone già pronto per la gara rotola anche lui lontano dai luoghi della vita e si perde come le anime di quei 39 poveri tifosi, che neri di tumefazioni e asfissia s'allineano disposti da mani pietose sul nudo selciato fuori dallo stadio tra urla di gente in lacrime e di sirene impazzite.

Come è cominciata la sera dei demoni inglesi dell'Heysel? Con una bandiera della Juve provocatoriamente bruciata davanti agli spalti del settore Z. La rete divisoria tra la follia delle creature infernali e qualla delle famiglie italiane - molte quelle venete - che con un charter avevano raggiunto Bruxelles da Venezia, viene scossa come un tamburello con un clangore di catene e la furia di chi sale le maglie metalliche della recinzione per cercare lo scontro fisico e il sangue.
La data è il 29 maggio 1985. Venticinque anni fa. E' una sera calda di primavera che quasi sconfina nelle temperature elevate di una precoce estate. Una lattina di birra con tutto il peso del suo contenuto e i bordi ferocemente affilati, schizza nell'aria e precipita sulla testa di un tifoso veneto dietro di me. L'aria pare attraversata da un lampo di morte: uno zampillo di sangue rosso che si confonde con i raggi purpurei del tramonto. Ma l'aria dilata anche un urlo di dolore raggelante che si distingue come un allarme che sovrasta l'inno di guerra "You'll never walk alone" che gli hooligans cantano brandendo minacciosi le aste delle bandiere verso di noi, folla inerme di famiglie con figli e nonni al seguito che occupiamo il settore Z della curva.

Il corpo cede sulle gambe sopraffatto dal dolore e da urla belluine e si spande l'odore sorprendente del sangue che prorompe dal cranio ferito mentre attorno gli amici sorreggono il corpulento compagno perché non stramazzi a terra di peso e gli tamponano la ferita con un candido fazzoletto che subito s'impregna d'un rosso scarlatto. Il rosso, filtrando tra le dita, dilaga gocciolando sul terreno nudo, scandendo come una clessidra cruenta il tempo del dolore e della fine.

La strage è cominciata. I corpi s'accalcano verso il muro che delimita il settore Z e la rampa di discesa che dal rettangolo di gioco s'insinua verso gli oscuri meandri sotterranei e fatiscenti dello stadio. Cinque, sei, sette metri di vuoto: una discesa appunto. Anche a saltare giù - e bisogna essere atleti ben allenati o semplici uomini disperati per per decidersi a saltare - non s'arriva a terra a pié pari. Eppure alcuni, pressati da coloro che ormai avevano violato il confine delimitato invano da una fragile rete salgono sul muro e cominciano a cadere di sotto fracassandosi le ossa. E sopra i primi cadono altri. La folla preme sul muro per sfuggire agli attacchi, per mettersi in salvo mentre gli hooligans dilagano per uccidere bandendo bastoni, sferrando pugni e calci, massacrando chi è a terra inerme. Inerme allo stesso modo di quando era in piedi in attesa dell'inizio della partita. Ma lo stadio è marcio. Anche il muro è marcio e non tiene più. Gli ultras del Liverpool sono marci di birra. Il muro crolla di schianto su coloro che sono già a terra, tutti rotti, sulla rampa. Quelli che si erano accalcati vanno giù come fantocci con le braccia che annaspano nell'aria e finiscono anche loro sulla rampa sopra i calcinacci sbriciolati che hanno sepolto coloro che erano caduti prima.

Intanto Rodolfo Sartor, uno dei responsabili del Club Juventus di Treviso e notissimo proprietario del pub Capriccio alla Mandonna Granda, mi afferra per un braccio e mi trascina verso il basso, verso il campo e così mi salva la vita. Nella recinzione metallica c'è una porticina. Siamo compressi sulla rete dalla folla che preme. Non si respira più. Rodolfo è alla mia destra anche lui con la faccia schiacciata alla rete. La porticina si scardina sotto la pressione. E' a dieci centimetri. Rodolfo con la forza della disperazione riesce a spingermi nel varco seguendomi. Insieme rotoliamo fuori verso la salvezza, ma giusto in tempo per prenderci una frustata da un poliziotto che ancora - come per altro tutti i suoi colleghi - non aveva realizzato che cosa era accaduto e si sentiva in dovere di frenare quella che a tutti gi effetti era un'autentica, inconfondibile, invasione di campo.

Lì, sulla rete, che noi ormai abbiamo lasciato, qualcuno sviene, qualcuno muore cercando invano un po' d'aria. Altri fuggono alla ricerca di riparo e salvezza. Altri ancora cercano di arrampicarsi sulle maglie della recinzione, altri ancora tentano di passarvi sotto. Quanti ne tiriamo fuori? Dieci, quindici, non so. Poi ci si ritrova a centinaia in mezzo al rettangolo di gioco. Vedo Bruno Schiavon, il famoso titolare del'osteria trevigiana Al ponte Dante, che soccorre alcuni feriti. Lui ha avuto la fortuna di essere risparmiato dall'orda di hooligans scatenati e armati, perché indossava il cappellino della Ferrari, rosso come i colori distintivi dell'orda furente e ubriaca. Per lui la Ferrari era un mito. E quel gadget per la testa preso a Monza era un'icona da esibire con orgoglio e con venerazione. Da quel giorno è il talismano tangibile di una fede salvifica capace di esorcizzare ogni personficazione del male. I diavoli sanguinari erano passati davanti e dietro di lui bastonando e urlando, facendo il vuoto sugli spalti. E lui - nonostante si trovasse proprio vicino alla rete di separazione tra i settori X e Z - era stato lasciato indenne e s'era ritrovato solo, incolume, sulle gradinate a guardare l'opera nefanda dei seminatori di morte, che per via del cappellino lo avevano scambiato per uno di loro.

Ormai la strage e compiuta: 39 morti (32 italiani, 4 belgi, due francesi, un irlandese) e seicento feriti.
Con un gruppo che si è affiancato a me (tra questi c'è anche Gaspare Lucchetta, uno dei fratelli titolari dell'Euromobil di Falzé di Piave), mi posiziono davanti all'accesso alla la tribuna d'onore protetta dallo schieramento di uno squadrone a cavallo. Agito un tesserino in pelle rosso-amaranto e chiamo il ministro Gianni De Michelis. I poliziotti a cavallo tra il tesserino dal colore regale e il grido "monsieur le ministre!" equivocano sul mio ruolo e mi fanno passare con tutto il gruppo. Raggiungiamo la tribuna e scendiamo nella sala interna dove tra i tavoli del sontuoso buffet allestito per le autorità si aggirano corpi macilenti e sanguinanti di feriti che hanno trovato rifugio e qualche cura lì dentro. Noi usciamo in strada. Sul selciato si allineano già una decina di corpi alcuni coperti con lenzuola, altri ancora a cielo aperto. Nessuno di loro ha le scarpe. Nessuno di loro...

Non me la sento più di ricordare tutti i particolari. La morte non è uno spettacolo da esibire anche se qui i corpi, che fino a pochi minuti prima erano persone, appaiono come testimoni inerti eppure urlanti di quali livelli di abiezione può coltivare la malvagità dell'uomo.

Giuseppe Spolaore, di Bassano, aveva 14 anni, allora. E' il figlio di Amedeo morto all'Heysel a 55 anni. Il giovane riportò la frattura di un femore. Ha detto recentemente: "Quella sera a Bruxelles si sono intrecciate e sovrapposte una serie di concause talmente consequenziali e perverse nel loro succerdersi da rendere tutto follemente dirompente. Sicuramente gli hooligans sono stati il fattore scatenante, ma anche l'assenza di polizia, la struttura inadeguata dello stadio, la mancanza di uscite di sicurezza, la tipologia di persone che si trovavano in quel pezzo di curva, l'organizzazione carente hanno fatto il resto". Tecnicamente è stato proprio così. Umanamente no. Perché se il tempo lenisce il dolore di certo non guarisce le ferite dell'anima. E' per questo che bisogna ricordare. Ricordare tutti: Rocco Acerra 29 anni, Bruno Balli 50, Alfons Bos, Giancarlo Bruschera 21, Andrea Casula 11, Giovanni Casula 44, Nino Cerullo 24, Willy Chielens, Giuseppina Conti 17, Dirk Daenecky, Donisio Fabbro 51, Jaques Francois, Eugenio Gagliano 35, Francesco Galli 25, Giancarlo Gonelli 20, Alberto Guarini 21, Govacchino Landini 50, Roberto Lorentini 31, Barbara Lusci 58, Franco Martelli 46, Loris Messore 28, Giovanni Mastrolaco 20, Sergio BastinoMazzino 38, Luciano Rocco Papaluca 38, Luigi Pidone 31, Benito Pistolat 50, Patrick Redcliffe, Domenico Ragazzi 44, Antonio Ragnanese 29, Claude Robet, Mario Ronchi 43, Domenico Russo 28, Tarcisio Salvi 49, Gianfranco Sarto 47, Amedeo Spolaore 55, Mario Spanu 41, Tarcisio Venturin 23, Jean Michel Walla, Claudio Zavaroni 28.

Che dire di più? Che le autorità ci volevano spedire via subito in aereo perché non volevano grattacapi, ma che noi - i vivi - restammo compatti al'ingresso dell'aeroporto fermi nella volontà di cercare negli ospedali tutti i feriti per portarli a casa con noi. E così fu nonostane le minacce e nonostante alcuni venissero "deportati" con i pullman verso un altro scalo distante più di 60 chilometri e spediti a Venezia. Così fu, appunto.

Oggi dell'Heysel è stato cancellata ogni pietra. Lo stadio della morte è stato demolito. Al suo posto nel 2000 è stato costruito uno stadio moderno intitolato all'anima buona di re Baldovino, quasi a esorcizzare quel luogo di morte. Heysel, il nome Heysel e quello che vi accadde, rimane tuttavia nella memoria collettiva dell'Europa come uno dei luoghi dove il male si è manifestato in tutta la sua abbietta potenza in una sera calda di primavera che quasi sconfinava nelle temperature elevate di una precoce estate.

Centesima fontana del Papa. L'ha costruita un bellunese


Tratto da Corriere del Veneto di domenica 4 luglio 2010


di Fausto Pajar

C'è una nuova fontana monumentale nei giardini del Papa in Vaticano. Così sono cento, tutte attive e famose e tutte alimentante con un sistema idraulico a circuito chiuso in grado di utilizzare sempre la stessa massa d'acqua, quella che vivacizza anche le fontane di piazza San Pietro. L'ultima costruita è opera dell'artista veneto Franco Murer, 58 anni, bellunese di Falcade, che ha appena completato il posizionamento delle sei grandi formelle in bronzo raffiguranti episodi della vita di San Giuseppe. Donata a Benedetto XVI° (Josef Ratzinger, per onorare il santo di cui porta il nome) dai Patrons of the Arts in the Vatican Museums, Michael e Dorothy Hintze e Bob Castrigniano, di Londra, ai quali si sono aggiunti alcuni Comuni della provincia di Trento e le suore del monastero di San Giuseppe a Kyoto, è stata collocata proprio sul pendio vicino al palazzo del Governatorato, davanti al grande stemma papale ben visibile dalla Cupola della Basilica di San Pietro.


Nella forma, la fontana assomiglia a un libro aperto costituito da sei "vele" dove sono collocate le formelle in bronzo di Murer. Ai piedi, due vasche. La prima di sei metri e la seconda, comunicante, di otto. Al centro, una palma. E' costruita in granito e porfido trentini della val di Cembra e della val di Genova, quest’ultima situata poco lontano da Madonna di Campiglio. Le componenti murarie e i marmi sono stati realizzati dalla ditta Pedretti Graniti di Carisolo (Tn).
E' stato lo stesso Murer a raccontare con precisione di cronista la genesi del progetto che ora si è realizzato e che avrà la sua consacrazione ufficiale con la cerimonia d'inaugurazione il 5 luglio prossimo alle 11 alla presenza del Santo Padre. Ripercorriamo, dunque, la storia di questa fontana situata in quei giardini vaticani nei quali ha lavorato, ad esempio, il Bramante e dove papa Leone XIII° aveva allestito un piccolo zoo, Giovanni XXIII° giocava bocce, Giovanni Paolo II faceva jogging e Benedetto XVI° passeggia, medita e prega davanti alla grotta della Madonna di Lourdes.

"Tutto è cominciato il 21 gennaio 2009 quando ho ricevuto una telefonata dell'ingegner Pier Carlo Cuscianna, direttore dei servizi tecnici del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano che mi ha riferito dell'esistenza di un progetto per la realizzazione di una fontana dedicata a San Giuseppe nei giardini vaticani che coprono circa la metà dell'intero territorio del piccolo Stato".
Lei è un artista famoso e molto impegnato, come è caduta la scelta sulla sua persona?
"Il cardinale Giovanni Lajolo era venuto in possesso del catalogo 'Arte e pietà in un sentiero nel bosco: una Via Crucis per Albino Luciani', Via Crucis che è opera mia, collocata a Canale d'Agordo, paese natale di Giovanni Paolo I° e ha incaricato l'ingegner Cuscianna di contattarmi e chiedere la mia disponibilità ad un incontro in Vaticano per spiegarmi il progetto".

In quali circostanze il cardinale Lajolo è venuto in possesso del famoso catalogo?
"So per certo che gli era stato donato dal sindaco di Canale d'Agordo, Rinaldo De Rocco, all'incontro per il premio internazionale Bonifacio VIII° di Anagni nel novembre del 2008". Poi i contatti proseguono e si sviluppano. "Esatto. Il 27 gennaio 2009 ho incontrato con mia moglie Nadia, in Vaticano, l'ingegner Cuscianna che mi ha consegnato il progetto della fontana realizzato nel 2007 dall'architetto Facchini. Con lui ho visitato e fotografato il luogo dove sarebbe sorta la centesima fontana dei Giardini".
C'è però da dire che sono stati invitati anche altri scultori ad eseguire i disegni preparatori sulla vita di San Giuseppe puntando sui temi dello sposalizio, del primo sogno di Giuseppe, della nascita di Gesù, della fuga in Egitto, del ritrovamento di Gesù nel Tempio e della Sacra Famiglia a Nazareth.
"Il 10 febbraio 2009 - continua la sua fedele cronistoria Murer - ho consegnato all'architetto Facchini in Vaticano, i bozzetti su carta e una formella in gesso della Fuga in Egitto. Ai primi di ottobre mi è stato comunicato che il cardinale Lajolo mi voleva incontrare e così il 13 ottobre mi è stato comunicato che mi sarebbe stato affidato il lavoro. Naturalmente il cardinale Lajolo mi ha raccomandato di rimanere il più possibile fedele ai disegni presentati alla Commissione nel realizzare le formelle in bronzo perché il Papa aveva apprezzato in modo particolare la dolcezza dei volti e la posizione delle figure".
In sostanza a Murer viene chiesto di realizzare le sei formelle di dimensioni comprese tra gli 83 e i 160 centimetri. Quindi è cominciato il lavoro. "Debbo dire - aggiunge Murer - che durante l'esecuzione delle crete c'è stata una comunicazione continua via e-mail con il cardinale Lajolo che mi forniva suggerimenti preziosi mano a mano che la mia attività proseguiva".
Quando sono state consegnate le formelle? "Eh, c'è voluto del tempo. La prima formella in creta l'ho consegnata alla fonderia Brustolin di Verona il 29 marzo. Subito è cominciato il lavoro di fusione, il ritocco delle cere, la cesellatura dei bronzi e la patina come indicato dalla committenza. Ecco, questo è tutto: un’ emozione grandissima. Ma adesso la mia fontana è lì ed è la fontana del Papa".



Presentazione

Esprimo i miei più vivi rallegramenti per questa manifestazione internazionale che l’Accademia Europea delle Arti ha voluto organizzare nella nostra città. Ritengo che questo possa essere il viatico per il rilancio dell’arte e della cultura. Dott. Vittorio Zanini Assessore alla Cultura “ARTISTI D’EUROPA A TREVISO 2010” L’Accademia Europea delle Arti, comitato nazionale italiano si è presentata per la prima volta con la mostra presso il Museo Nazionale di Villa Pisani di Stra (VE), dove ha ottenuto molto successo da un pubblico attento ed entusiasta. Ora questo gruppo di artisti si presenta per la seconda volta in un’ altra importante mostra presso il Museo di Santa Caterina a Treviso. Procedendo con lo stesso impegno il Comitato Nazionale Italiano ha invitato ventotto artisti provenienti da tutta Italia e da diversi paesi europei: Austria, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Spagna e Malta. In questa prestigiosa cornice viene presentato l’omaggio in memoria di Renato Nesi, pittore rappresentante dell’arte europea che ha dedicato la sua vita alla pittura. Interessante è raccontare attraverso gli artisti di oggi la storia dell’arte che è stata scritta a Treviso da Tommaso da Modena, dei quali una parte importante di affreschi si trova nel museo di Santa Caterina. Grande pittore del 1350 che ha fatto di Treviso una delle città più rappresentative del gotico europeo. La Sezione italiana è costituita dal presidente onorario scultore Simon Benetton, dalla presidente e fondatrice del gruppo pittrice Bruna Brazzalotto, dal vice presidente pittore Salvatoremarcon, dallo scrittore, musicologo e critico d’arte Giuliano Simionato, dalla pittrice e delegata per la Sicilia Aurora Bonanno Conti Natoli, dal Curatore Artistico Antonio Altinier, dal giornalista e scrittore Fausto Pajar, dal Segretario Genarale informatico Angelo Arsetta e dal Segretario aggiunto poetessa Aurora Fiorotto Arsetta.

La presidente Prof. Bruna Brazzalotto

L'EUROPA DEGLI ARTISTI
di FAUSTO PAJAR

L'Accademia Europea delle Arti ritorna anche quest'anno - dopo il successo ottenuto nel 2009 a Villa nazionale Pisani a Stra - con una mostra di 28 pittori e scultori, di diverse località dell'Unione e di diversa formazione culturale e artistica nella nobilissima sede di Santa Caterina, il luogo che raccoglie testimonianze incredibili della cultura europea con la forza pittorica di Tomaso da Modena. Lo scopo di questa rassegna espositiva è quella di proporre una carrellata sulla recente produzione artistica dei professionisti che si riconoscono negli ideali dell'Europa e ne vogliono promuovere la conoscenza interpretandone valori fondanti comuni ma anche tensioni concettuali o sociali che dimostrano la volontà di approfondire e conoscere tutti gli aspetti dell'essere cittadini d'Europa oggi con la prospettiva di un'integrazione più completa che vada ben oltre il puro materialismo della moneta unica o dei mercati.
Che all'Europa - per poterla dire veramente "nostra patria comune" - manchi qualcosa di spiritualmente fondante e unificante tra i popoli che la compongono, è una delle evidenze sotto gli occhi di tutti. Il liberale Marcello Pera, ex presidente del Senato, già ordinario di Filosofia teoretica all'Università di Catania e di Filosofia della scienza all'Università di Pisa, ha ribadito spesso questo concetto sostenendo che all'Europa manca l'anima, riprendendo motivi evidenziati anche da padri fondatori come Schuman che il 19 marzo 1958, di fronte al primo Parlamento europeo disse: "Tutti i Paesi dell'Europa sono permeati dalla civiltà cristiana, essa è l'anima dell'Europa che occorre ridarle". O come De Gasperi che ha scritto: "Come concepire un' Europa senza tenere conto del cristianesimo, ignorando il suo insegnamento fraterno, sociale, umanitario?". O come Adenauer che, a sua volta, ha sostenuto: "Consideravamo meta della nostra politica estera l'unificazione dell'Europa perché unica possibilità di affermare e salvaguardare la nostra civiltà occidentale e cristiana contro le furie totalitarie".
Dunque dove sta l'anima dell'Europa? La risposta la dà Marcello Pera in "Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa e l'etica", pubblicato da Mondadori: "Secondo i Padri dell'Europa l'anima "sta in un insieme appropriato di principi e valori che tutti gli europei non possono non avvertire come fondamentali e imprescindibili".
Ecco, gli artisti dell'Accademia Europea si fanno portavoce di questi valori, ciascuno secondo la sua formazione, ciascuno secondo la sua propria personalissima e originale visione del mondo. Infatti possiamo ben sostenere con Aldo Bodrato che ne ha parlato agli Incontri all'isola di Sant'Erasmo, a Venezia nel 2008 e riportati in "Quale storia a partire da Gesù?" (Servitium editrice) che "l'arte non imita la realtà. Da sempre la interpreta e la ricrea: per un verso, al fine di denunciarne le pieghe nascoste, anche le più riprovevoli; per altro, alla ricerca della sua natura profonda, segreta e ancora inespressa, natura che essa racchiude e a cui, più o meno segretamente, anela. Per fare questo si serve della rielaborazione simbolica del linguaggio comune, ottenuta con lo spaesamento e la ricombinazione delle sue forme consuete e consumate, dell'invenzione di immagini nuove e impensate, ma soprattutto della continua rivisitazione e riproposizione variata del linguaggio metaforico degli artisti precedenti. In questo modo contribuisce non alla fuga, ma alla conquista della conoscenza, non alla creazione di un mondo parallelo a quello reale, ma alla trasformazione inedita e impensata del mondo reale".
Questi artisti dell'Accademia Europea delle Arti donano la loro immaginazione del mondo, donano a noi tutti, la realtà che essi interpretano. Spetta a noi saper leggere questi messaggi, saper stringere queste mani, avere il coraggio di comunicare l'Europa, la nostra Patria.

LA MOSTRA DELL’ACCADEMIA EUROPEA DELLE ARTI: UNA FINESTRA SUL MONDO

Mantiene la sua cifra internazionale la Mostra di pittura e scultura organizzata quest'anno a Treviso dall'Accademia Europea delle Arti,

Mantiene la sua cifra internazionale la Mostra di pittura e scultura organizzata quest’anno a Treviso dall’Accademia Europea delle Arti, Comitato Nazionale Italiano, nel Museo Civico a Santa Caterina. Vi aderiscono generosamente ventisette espositori, provenienti, oltre che dall’Italia, da vari Paesi dell’Unione Europea (Spagna, Francia, Belgio, Lussemburgo, Austria, Germania, Malta), coinvolti nell’impresa di esprimere le speranze, le inquietudini e le contraddizioni che albergano nell’animo dell’uomo alle soglie del terzo millennio. Impegnati, ciascuno secondo la propria inventiva e sensibilità, a fondare un’alleanza fra l’essere e il senso, a camminare con la società anche nelle difficoltà che la interpellano.
La mostra vuole inoltre rendere omaggio al trevigiano Renato Nesi (1923-1999), artista di levatura europea, mediatore sagace fra strutturazione formale di ascendenza cézanniana e novecentesca e colorismo di matrice veneta. La sua intenzione di superare l’impianto narrativo con partizioni di luce e tagli d’immagine di gusto cubista si è precisata in una sintesi architettonico-geometrica scandita con incisiva essenzialità. La lucidità razionale, la declinazione cromatica, il senso ritmico-strutturale rendono la sua pittura aliena da mode e correnti, nobilmente avanzata rispetto agli strascichi post-impressionisti regionali.
Il Parlamento di Bruxelles ha proclamato il 2009, da poco concluso, “Anno europeo della creatività e dell’innovazione”. Con ciò sottolineando che l’impegno nella cultura e nell’arte è un’esperienza che aiuta a dispiegare il potenziale innato delle persone e a coinvolgerle attivamente. Paul Gauguin disse: “Chiudo gli occhi per vedere”. Intendeva così uscire dalle secche del passatismo, della prevenzione, dell’omologazione. Anche noi vogliamo vedere meglio, per capire meglio e agire meglio. Dobbiamo risvegliare le competenze e i talenti sopiti. Sfruttare tutto il potenziale creativo della società per raccogliere le sfide che il mondo ci propone. Creatività e innovazione, oltre al mondo dell’economia e della tecnologia, interrogano il mondo dell’arte. Gli artisti contribuiscono ad arricchire la nostra vita con le loro opere, che danno qualità all’ambiente che ci circonda e influenzano positivamente i gusti, i giudizi di valore e le istanze dei giovani europei. E’ auspicabile perciò che i programmi dell’Unione Europea tengano in debito conto gli aspetti positivi ed etici dell’arte, in particolare di quelle opere che suscitano l’orgoglio per l’identità europea. La base del pensiero creativo che dovrebbero fornire le nostre scuole riguarda certamente le capacità matematiche e scientifiche, ma anche la sensibilità estetica. Occorre educare i giovani a pensare con l’arte, soprattutto in termini interculturali. Il dialogo interculturale presuppone la mobilità degli artisti. La vera essenza dell’Unione Europea è la libertà di movimento al suo interno, il confronto di una famiglia diversa ma unita. Per molti artisti ciò è un’opportunità unica per studiare, instaurare un legame coi colleghi, trovare ispirazione e scoprire nuovi mezzi di espressione. L’integrazione europea e l’introduzione della moneta unica hanno giocato sicuramente un ruolo importante per incoraggiare questa mobilità, ma determinanti restano il sostegno istituzionale e la creazione di reti per lo scambio di idee e la realizzazione di iniziative comuni. La promozione della mobilità delle arti e degli artisti è un obiettivo di crescente rilevanza, al quale la nostra Accademia intende contribuire con una “mappa culturale” che dia aì suoi aderenti la possibilità di intrecciare scambi proficui. L’arte non ignora il rapporto col mondo, traendo linfa da una reciprocità che le consente di avanzare anche nell’incoerenza dei tempi. Essa è “una stretta di mani”, un ponte fra gli uomini. La nostra società esprime un forte bisogno di fantasia, di creatività e di originalità, istanze che la Mostra raccoglie e alle quali, anche in termini valoriali, dà convincente risposta.


Giuliano Simionato

Dolomiti, rischio Far West: un pericolo reale

Tratto da: "Corriere del Veneto" del 23 Marzo 2010





Intervista al docente dell'università di Padova che ha collaborato alla candidatura per il riconoscimento di "patrimonio dell'umanità" da parte dell'Unesco

Dolomiti, rischio Far West: un pericolo reale

Franco Viola: preoccupano certe dichiarazioni, ma ci sono gli anticorpi contro gli affaristi. Ladini, impegno prezioso.


A conclusione del dibattito sulle prospettive che si aprono alla terra dolomitica con il riconoscimento di Patrimonio Unesco interviene il professor Franco Viola, docente universitario al un corso di laurea in Scienze forestali del Dipartimento Territorio e Sistemi agro forestali all'università di Padova. Dopo un excursus cronologico, l'illustre decente, che al progetto Dolomiti Unesco ha lavorato per dieci mesi, suggerisce - sulla base delle proprie conoscenze scientifiche e umane - tempistica e metodologia per valorizzare al meglio le opportunità che ora si presentano alla terra Ladina.

-Egregio professore lei si occupato delle Dolomiti per ragioni professionali e scientifiche da molto tempo, viole spiegare perché?
"Mi sono occupato e mi occupo della montagna, e dunque anche delle Dolomiti, per passione e per mestiere. Le Dolomiti in particolare sono montagne speciali, non conoscono mezzi termini. Qui tutto è esaltato, nel bene e nel male. Bellezza, paura verticalità, fatica, lo stesso clima, colori e scene, tutto è più forte, di sicuro impatto. Ho avuto una duplice fortuna in questo senso: ho potuto per lavoro frequentare San Vito nella valle del Boite, dove l'Università in cui insegno gestisce un Laboratorio d'Ecologia. Fare ricerca in quel contesto dalla Croda Rossa d'Ampezzo al Duranno, dalle Tre Cime alla Marmolada, per restare "vicini" al Laboratorio, è un privilegio che pochi possono permettersi. La seconda fortuna è stata di poter insegnante in un Corso di laurea in Scienze forestali. In particolare ho sviluppato molta ricerca applicata, operativa. Le esperienze più belle sono state quelle inerenti lo sviluppo, in collaborazione con altri, di qualche Piano territoriale, come quelli di alcuni Parchi della regione dolomitica: Paneveggio-Pale di San Martino, Dolomiti d'Ampezzo, Dolomiti Bellunesi, Adamello-Brenta, e quelli di tante altre realtà protette, più piccole, ma non per questo meno importanti".

-Quale è stato il suo ruolo nel Progetto Dolomiti-Unesco?
"Mi è stato chiesto di partecipare alla redazione del documento di candidatura nella prima fase dell'impresa, quella avviata dalle cinque Province e dal ministero dei Beni culturali, nel 2005 e conclusa in prima battuta nel settembre dello stesso anno e, in seconda battuta a fine gennaio 2006. In quella circostanza ho diviso l'impegno e la fatica con altri tre coleghi professionisti e con una motitudine di amici e tecnici delle Province candidanti. Ricordo Pietro Gianolla, geologo dell'Università di Ferrara, Cesare Lasen, botanico ovunque conosciuto, anche per il suo impegno di presidente del Parco Dolomiti bellunesi, Michele Cassol, forestale e faunista di grande esperienza e di indubbio spessore scientifico. Non c'è spazo per elencare tutti gli amici delle Province che hanno contribuito all'impresa: non se ne abbiano a male, sono certo che capiranno. I primi tre andavano invece citati per un motivo tecnico oltre che professionale: l'accordo interprovinciale e tra le Province e il ministero di riferimento era di produrre la documentazione di candidatura facendo leva su tutti e quattro i 4 criteri naturalistici previsti dalla Convenzione Unesco. E' stata una scelta fondamentale, perché candidava le nostre montagne dichiarandole eccellenti per i loro caratteri scenici e paesaggistici, per quelli geologici e geomorfologici, per quelli biologico-naturalistici e per quelli ecologici ed ecosistemici. Dunque un'eccezionalità-unicità di rango mondiale per tutti gli aspetti biotici e abiotici di cui si compone la natura di questi luoghi. Ciascuno dei professionisti incaricati dell'impresa aveva da curare, per le proprie competenze, uno specifico criterio. A me è stato chiesto di curare anche il coordinamento del lavoro, forse anche per la mia duplice qualificazione di ecologo e pianificatore. Per questo mi venne affidato anche l'incarico di stendere anche il Piano di Gestione delle Dolomiti patrimonio mondiale. il documento di firerimento nella futura gestione del bene, nel caso fosse diventato parte di World Heritage List. A posteriori devo dire che l'avventura è stata splendida sotto il profilo umano, ma assolutamente logorante: si è dovuto costruire il metodo di un lavoro, di cui nulla si sapeva, in collaborazione stretta con decine di collaboratori appunto. Il cronoprogramma di dieci mesi non prevedeva pause, ferie, stanchezza: si contavano le ore. Ma abbiamo rispettato le scadenze. Già questa è stata una vittoria".

-Lei ritiene che le Dolomiti possano dientare una sorta di Far West, una terra di conquista per speculatori di vario genere?
"Se il Paese Italia (non sono state le Province, ma lo Stato, a candidare le Dolomiti) ha dichiarato con questo atto di candidatura la volontà di provvedere alla tutela del Bene, dovrebbe essere alimentata la speranza che le Dolomiti non divengano bersaglio di male intenzionati affaristi. Certo è che le molte dichiarazioni rilasciate da personaggi che contano nella politica e nell'economia, all'indomani dell'accettazione Unesco, non danno molto a sperare per un futuro di valorizzazione sana e corretta delle nostre montagne. Il rischio c'è. Ma ci sono anche le persone giuste perché si crei e si diffonda e si rafforzi una cultura di lavoro e di impresa per una crescita economica senza degrado. L'aver creato e mantenuto un paesaggio degno d'essere Patrimonio Mondiale è attività cui va riconosciuto valore e che, in qualche modo, va dunque pagata, ricompensata. Spetta alla gente delle Valli dolomitiche far valere questo loro impegno passato, e dunque difendere e valorizzare la cultura che ne sta alla base. Questa cutura è incompatibile, io credo, con la cultura di conquista che lei evoca con la locuzione Far West".

-Secondo lei quindi le Dolomiti patrimonio Unesco sono anche un riconoscimento ai Ladini come custodi millenari di valori culturali e ambientali impareggiabili?
"Al popolo dei Ladini va certamente riconosciuto un ruolo imporantissimo nella costruzione di una cultura montanara basata sul rispetto e sul mantenimento del capitale naturale, che è anche un capitale economiche che frutta reddito, non si può dire però che ciò non valga anche per altri popoli, che forse con altri percorsi storici e di metodo hanno saputo conquistare risultati altrettanto validi sul piano della gestione attenta del loro territorio. Credo sia assolutamente corretto e doveroso tenere alta la bandiera di un'appartenenza ad un gruppo ben preciso nel quale ci si intentifica e al quale si senta debba essere riconosciuto un merito per il mantenimento dei valori che oggi sono esaltati dall'Unesco. Ottimi dunque in questo contesto i risultati ottenuti dai Ladini, che sono ricchi di storia e carichi di meriti. Da parte mia viene l'invito a seguitare su questo cammino, ma anche a non trincerarsi sugli allori del passato, guardando piuttosto ad integrare,valorizzandoli, i propri meriti con quelli degli altri popoli vicini. Guai a perdere la propria identità in un contesto che produce rapidamente globalizzazione, che per molti versi è sinonimo di perdita di qualità, di degrado, di livellamento verso il basso. Ma questo non deve significare isolamento, nemmeno culturale, perché l'ecologia ci insegna i pregi della diversità, che è dare e ricevere contributi, che è motivo di forza, di resistenza, di ricchezza".

-Che cosa si può dire in conclusione dopo questa articolata disamina?
"Mi ha molto colpito il grande entusiasmo manifestato, dopo l'approvazione della candidatura, da molti importanti personaggi che poco o nulla avevano avuto consapevolezza del difficile cammino percorso. Mi hanno soprattutto colpito le molte considerazioni al riguardo della portata economica di questo successo italiano, e le sottolineature sul valore aggiunto all'area dolomitica in un contesto di economia turistica. Chi si è espresso in questi termini ha dimostrato poca attenzione per i contenuti della Convenzione Unesco e per il vero significato del cammino di cultura compiuto dal Pese e dalle cinque Province. Bisognerebbe che si meditasse almeno un poco sul ritiro della prima candidatura. Di fatto è stata una scelta obbligata, pena la bocciatura da parte dell'Unesco e l'impossibilità di riprendere daccapo il medesimo cammino. Si è dunque trattato di una mezza vittoria e di una mezza sconfitta. Non che i valori naturalistici non fossero evidenti e non degni della dichiarazione di eccezionalità! Si è imputata al nostro sistema amministrativo e gestionale una scarsa attendibilità quando si impegnava a proteggere le parti più preziose e vulnerabili del patrimonio di casa. E' probabile che qualcuno negherà questa evidenza; ma non passa giorno che non vi sia qualche nuova aggressione,spesso ignorata, ai gioielli naturali del nostro Paese, che sono una ricchezza collettiva. Una volta sperperato il capitale, nulla resterà ai nostri figli. Lo sapevano i montanari di un tempo, ma la loro saggezza sta svanendo, come il suo ricordo. La speranza è che ora si riaccenda l'orgoglio, e che si operi al meglio per mantenere eccezionalmente bella, sicura e confortevole la nostra casa comune".
FAUSTO PAJAR

TasteVin Febbraio/Marzo 2010

CAPANNELLE, LA CANTINA PERSONALE DI "MISTER ORIENT EXPRESS"






Prosit, mister Sherwood!
Stappare oggi una bottiglia di Capannelle, quello stesso vino presentato sull'Orient Express nell'atmosfera Bella Epoque voluta da Helmut Koecher per presentare Merano WineFestival, è stato un rito di gratificante lussuria per la gola e per l'anima e mi ha spinto a cercare padre e madre di cotanto vino di nobilissima terra senese di Gaiole in Chianti. A cercare, cioè là dove le colline parlano Sangiovese aulico e risvegliano memorie di religiosità medioevale nel non lontano monastero di Monte Oliveto, affrescato con mani mirabili dal Sodoma e invaso, nella grande basilica, dal diffondersi del canto del salmista dalle bocche di 35 venerabili frati che pur essi, oltre che all'anima, si dedicano alla coltivazione della vite proprio vicino a quella terra di San Giovanni d'Asso che è miniera di tartufi e rifugio di branchi di lupi appenninici. Là, là, poco lontano da questo serbatoio speciale di delizie spirituali, culturali e naturalistiche, proprio sulle colline di Gaiole, sta l'azienda agricola Capannelle, che sarebbe poi il buen ritiro con cantina personale di quel mister Sherwood al quale ho brindato all'inizio per riconoscergli merito eccelso di vigniaiuolo dai mille interessi. Lui, americano di Pennsiylvania che di nome fa James B. ,classe 1933, con laurea in economia a Yale e residenza british, è ben noto al pubblico italiano per le sue performance di capitano d'industria. Che dico capitano, di generale del mondo degli affari partito nel 1965 con l'idea dei trasporti marittimi e appena centomila dollari per fondare, con sede alle Bermuda, la società Sea Containers che solca i mari portando a destinazione quei grandi scatoloni metallici che sono fondamento della logistica razionale e veloce. Ma forse, ai non addetti ai lavori, lui è più noto per essere quello che ha rimesso sui binari l'Orient Express, il mitico treno che agli inizi dell'altro secolo trasportava da Parigi, nel cuore dell'Europa, a Istanbul, sul Bosforo, alle soglie del misterioso Oriente, dame e cavalieri di gran censo in carrozze di sofisticata bellezza per il design, per lo stile e per il servizio di bordo equiparato a quello di un hotel di lusso. Le carrozze originali di quel mitico treno era andato a cercarsele, una a una, dove il destino le aveva relegate per divenire una volta ristorante, una volta abitazione, insomma dove il destino le aveva condannate all'immobilità. Loro - le carrozze dico - avevano infatti sempre ruote ben solide di ferro e vocazione per correre ancora il mondo come l'avevano corso per decenni da un capo all'altro dell'Europa allora ancora solidamente in mano alle grandi monarchie continentali. Le prime due le aveva comprate all'asta nel 1977 da Sotheby's a Montecarlo e poi, con mirati interventi finanziari ne aveva acquisito una qua e una là, mettendo assieme 35 vagoni e le carrozze ristorante. Oggi quel treno antico e modernissimo pieno di fascino e nel target del lusso più elegante e di charme si chiama "Vsoe", acronimo di "Venice-Simplon Orient Express", in servizio da marzo a novembre sulla linea Venezia-Londra. Ma se al giro d'affari dell'infaticabile pennsylvano si andavano aggiungendo gioielli strepitosi come gli alberghi Cipriani a Venezia, Splendido a Portofino, Villa San Michele a Firenze, Caruso a Ravello (solo per restare in Italia, perché molti altri ne possiede in comproprietà con i figli, in giro per il mondo) l'innamoramento per il vino italiano è stato colpo di fulmine a Gaiole, dove s'è scelto il vigneto personale ("Guarda il calor del sol che si fa vino giunto all'umor che dalla vite cola" dice Dante) per condividere le delizie del Chianti e del suo vino inimitabile con amici e anche con tutti coloro che desiderano accedere all'eleganza del gusto e al piacere della bevanda sacra di Noè. Così con l'enologo Simone Monciatti e il responsabile marketing Manuele Verdelli, ha dato alla luce vini pregiati come Capannelle, come 50&50 e Solare che se possono ben essere descritti dai sommeliers con precisione scientifica, anche il degustatore semianalfabeta percepisce appieno pur senza le parole dotte. Da 16 ettari di vigneto collinare arrivano sulle tavole 70mila bottiglie delle varie etichette, elevate in botte o in barrique. E' intuibile, a questo punto, che Capannelle s'inserisce nella fascia più alta del mercato e nobilita le cantine di ristoranti e hotel di grande prestigio in tutto il mondo. L'obiettivo della sublime qualità è stato raggiunto attraverso passaggi meticolosi e curati con la selezione attenta dei cloni, moderne metodologie di coltivazione, bassa produttività, tecnologie d'avanguardia in cantina, cura dei dettagli. Alla vocazione all'eccellenza s'unisce l'attenzione per gli amici, i clienti. Infatti, un caveau blindato custodisce 8000 bottiglie per i più esigenti che accantonano in cantina la produzione scelta per il proprio ristorante o la propria mensa privata, perché "il vino - come affermava Renault - è la parte più intellettuale del pranzo". E appunto per distinguere gli intellettuali più raffinati la retroetichetta di ogni bottiglia può anche essere personalizzata, come a dire che quella scelta è meditata e voluta. Un blasone d'antica memoria in un vino contemporaneo d'ineguagliabile spendore.
Prosit, mister Sherwood!

Parlano di me...

dal Corriere della Sera



"Dolomiti il marchio Unesco è solo marketing"

Da "Corriere del Veneto" martedì 9 Marzo 2010




L'ampio dibattito sulle Dolomiti e il loro futuro, che si sta svolgendo in questa pagina ormai da alcune settimane, rappresentando posizioni e voci di divesa provenienza e formazione, si arricchisce oggi del contributo di Marcello Cominetti.
Personaggio dal carattere spigoloso (la definizione è sua e non posso che condividerla), Cominetti, classe 1961, è un alpinista che viene da quel mare ligure (è nato a Genova) dove le Alpi hanno inizio e vive ormai - quando non è in giro per il mondo - a Corvara in Alta Badia da oltre un quarto di secolo. La sua è una voce autorevole. E' la voce di un esperto di grande spessore che ha conosciuto attraverso imprese importanti sulle montagne dell'Himalaya, del Sud America e dell'Africa luoghi e genti molto diversi tra loro ed ha accumulato uno spirito di pragmatica saggezza che gli consente di esprimere con toni inequivocabili un giudizio sul futuro delle valli dolomitiche a partire dall'inserimento delle Dolomiti nei siti Unesco dell'Umanità per arrivare alla dibattuta questione - non di poco conto per la gestione oculata dell'ambiente - dei pedaggi per i transiti sui valichi. Ecco critiche e proposte. -E' arrivata l'Unesco sulle Dolomiti. Finalmente o no? Direi né una né l' altra cosa. Questo obiettivo a lungo perseguito anche da persone oneste, in verità nasconde tra i promotori persone che difendono i propri interessi anzichè quelli delle montagne e i loro abitanti. Queste persone sono tra gli abitanti delle Dolomiti, ma sono coloro che le sfruttano e basta e sono cieche di fronte al guadagno monetario senza calcolarne il costo in termini di valori assoluti. Ho visto luoghi nel mondo cui il patronato Unesco ha dato notorietà, è stato sbandierato a soli scopi pubblicitari (come sta succedendo ora qui) e in pochi anni si sono rovinati per offrirsi a un pubblico sempre più "comodo" e spendaccione. Sarei curioso di chiedere ai titolari degli esercizi che appongolo il marchio UNESCO ai loro depliant patinati e siti Internet, se sanno cos'è l' UNESCO e i suoi principii. -Quale è la priorità assoluta, oggi, per il territorio dolomitico? La salvaguardia della propria identità se si parla di persone e quella dei siti naturali che restano autentici per farli conoscere alle generazioni future. Non occorre aggiungere altro, ma semmai fermarsi. -E poi quali altri interventi sarebbero necessari per tutelare la gente che vi abita stabilmente e che in sostanza ha sempre tutelato le Dolomiti come patrimonio delUmanità? Divisi in più province e regioni, gli abitanti delle Dolomiti non hanno certo vita facile dal punto di vista politico e semmai finora sono stati sfruttati per beceri giochi a livello locale dalla politica da bar o poco più. Occorrerebbe che ogni Comune dal suo interno si sensibilizzasse a quello che sarà il futuro di queste vallate. Per fare ciò, in ogni giunta dovrebbe esserci un "foresto", uno che veda situazioni e luoghi con occhio critico e diverso da chi è nato nella terra che governa. La diversità è ricchezza.- Ritiene che l'emblema Unesco possa portare qualche vantaggio alle genti che vivono da sempre nelle Dolomiti? Forse lo porterà a quelle zone meno note i cui abitanti crederanno di potere così alzare il loro benessere e permettersi un' auto più bella e una casa dalle finestre più grandi. Ma oggi penso che per fare un turismo sensibile all' ambiente (che è fatto anche da chi ci vive), perchè da quest' ultimo trae gli elementi necessari alla sua esistenza, si debba lavorare sul "piccolo" e su quello che si ha da offrire con onestà e autenticità. In sede diversa potrei fare degli esempi. La patacca UNESCO può servire a queste località come mezzo per farsi conoscere, ma non credo sia il solo possibile. Oggi c' è Internet e ho visto posti che da remoti e sconosciuti hanno saputo farsi una clientela di estimatori intelligenti e sensibili al semplice. Turismo non vuol dire solo funivie, wellness e Sellaronda, ma anche tranquillità e ritorno alle origini, pur con i mezzi che il mondo moderno offre ma senza credere che sia necessario l' inutile. Come in alpinismo, e non solo, "togliere" è più efficace che aggiungere se si fa in maniera sapiente.-Cosa pensa della proposta di instaurare un pedaggio per i transiti sui valichi? Che è una forma di ladrocinio totalmente inutile. Se si vuole regolamentare e limitare il flusso di traffico bisogna chiudere a orari e favorire semmai chi si sveglia presto la mattina per godere dell' alba piuttosto che solamente chi ha un portafogli più gonfio. Inoltre chiedendo un pedaggio cosa si offrirebbe a chi transita a pagamento?-Sicuramente lei avrà anche altre considerazioni da fare? Ne avrei infinite. Ma la penultima domanda mi ha fatto pensare al fatto che la maggior parte dei turisti, vive così male, che quando è spennata come polli, trattata a pesci in faccia e fatta oggetto di sfruttamento e nulla più, è comunque remissiva e si adatta a meraviglia, perchè è in vacanza. Questo assogettarsi automatico e ignorante provoca molti più danni di quanto si pensi, perchè l'offerta si adatta istantaneamente alla domanda per i motivi di cui sopra e una soluzione che passi attraverso l' educazione anzichè la repressione sarebbe scomoda e costosa.
Oggi si leva la geografia dalle scuole elementari mentre alcuni nostri politici vengono beccati con prostitute e cocaina, così l' attenzione si distoglie dai veri problemi e i media la spostano a loro piacimento su chi tiene alti gli indici di ascolto.
Ma io ai miei figli ho messo sul comodino un bel mappamondo, che oltretutto funziona anche da abat-jour.

FAUSTO PAJAR.

"Enonauti stravaganti e vip cercano benessere nel vino"

In TasteVin N.6 Dicembre 2009/Gennaio 2010



Enonauti stravaganti e vip cercano benessere nel vino

di FAUSTO PAJAR



E’ facile schierarsi – dapprima l’avevo fatto anch’io – con coloro che deprecano la nuova mania, d’origine francese (Bordeaux), poi Usa e ora anche italiana, di fare il bagno –intendo fisicamente, per immersione- nel vino, preferibilmente rosso. Un rituale bacchico rovesciato, come molte delle cose che, essendo state mal assimilate in gioventù, riemergono –al contrario, come per una legge del contrappasso- in periodi più o meno allucinati, quando gli anni maturano. Infatti, come non è detto che nella botte vecchia ci sia il vino migliore ma spesso un passabile aceto, così avviene anche per coloro che fraintendono le lezioni dei grandi maestri e si schierano a spada tratta contro tutte le novità. Io non mi schiero più, in materia, preferisco registrare gli eventi e lasciare che ciascuno si comporti come preferisce, secondo coscienza.
Il rituale bacchico ha sempre previsto abluzioni con il vino, ma riguardanti per lo più l’interno del corpo, non l’esterno. Non per lavarsi. “E infatti non ci laviamo nel vino”, protestano gli interessati. “Noi –aggiungono- nel vino nuotiamo”. Insomma quattro bracciate nel cabernet o nel merlot sono tonificanti. Infatti riempita la piscina di ottimi vini italiani, secondo i gusti, si tuffano, quei signori, nuotano, si svagano e così crescono in salute e in bellezza.
“Fa bene alla salute e alla pelle”, sostengono infatti con forza gli enonauti. E se uno beve -in piscina capita- beh, non ci sono problemi, tutto dipende dalla quantità. “Aiuto, ho bevuto”.
“Sputa, sputa subito”. “Fossi matto, mai sentito un Sangiovese così”. Fuori dalle facezie di questa prelibata notizia, diciamo che è tutto vero. La moda di fare il bagno nel vino dilaga già da qualche tempo. Prima è nata come mania di vip hollywoodiani, poi lo snobismo ha lasciato spazio al recupero di antiche pratiche di oscuri speziali, più caserecce ma anche più motivate. E’ per questo che il disappunto iniziale e lo stupore per le americanate – come dicevo all’inizio, hanno lasciato spazio a considerazioni ben più ponderate e a ricerche ben più attente ai fondamenti scientifico-cultural-beauty della prassi antica di sfruttare vinacce, vinaccioli e vino anche per pratiche corporee che non riguardino in maniera specifica la bocca (veicolo per il nutrimento del corpo, ma anche veicolo del nutrimento dello spirito con la parola che ci mette in relazione tra noi) ma anche il resto del corpo, Tutta la carne. Ma andiamo con ordine. Tempo fa, ricordo bene, l’agenzia Adnkronos, aveva diffuso un serizio da Los Angeles che si riferiva all’ultima follia dei vip di Hollywood precisando che “l’enonuotata” importata dalla Francia era diventata una tendenza che li contraddistingueva, incrementando così il consumo del vino e valorizzandone proprietà ben note fin dall’antichità.
A dare il via alla moda transatlantica ci sarebbero alcune delle star internazionali come ha confermato anche l’autorevole sito http://www.esperya.com/, boutique on line dei prodotti italiani che serve alcune tra le più grandi star internazionali. Così si è venuti a sapere che Johnny Depp che tra l’altro ha voluto per sé il castello appartenuto al re dell’horror Bela Lugosi sul Sunset Boulevard di Los Angeles, s’è fatto costruire nella sua (anche questa) villa a Saint-Maxime, nel golfo di Saint Tropez una piscina di 36 metri di diametro color vinaccia nella quale nuotare dopo averla riempita di vino. Il pirata più famoso di Hollywood è un estimatore del Chianti, che beve volentieri e che ha acquistato, assieme ad altri vini italiani, per un importo che si aggira intorno ai 180mila dollari. Questa passione per il vino e per le enonuotate ha toccato anche Bono Vox, il cantante degli U2 che nella sua villa di Eze (1500 metri quadrati, costo 4 milioni e mezzo di euro) ha realizzato una piscina da 840 litri che riempie con una miscela di Barbaresco, Barolo, Dolcetto d’Alba e acqua minerale. In tutto qualcosa come 500mila dollari di spesa. Ma anche Elton John si è dedicato a riempie la piscina sulle alture di Nizza con vini rosati e Madonna, di origini abruzzesi predilige il Montepulciano delle sue terre. Secondo i bene informati e le riviste di gossip Angelina Jolie si tuffa nella Barbera piemontese poi fa un passaggio in acqua minerale calda arrichita da estratti di vino e mosto. Julia Roberts e Jennifer Lopez preferiscono di vini toscani per mantenere la pelle giovane e idratata. Insomma per essere in forma perfetta non si può fare a meno di impacchi di Morellino, massaggi al Chianti, nuotate nel Prosecco o nell’Aglianico. Con la speranza che ne rimanga a sufficienza anche per coloro che il vino lo usano alla vecchia, tradizionale, saggia maniera, cioè bevendolo.
Ma diciamo anche che la moda, che ha fondamento scientifico legato alle proprietà stesse del vino ricco di sostanze naturali importanti in funzione della bellezza del corpo, ha preso piede anche in Italia.
Ecco qualche esempio, in Emilia Romagna, in Sudtirolo e in Toscana, dove all’accesso all’enobeauty è aperto a tutti.

Per una curiosa e magica alchimia proprio nel regno delle acque, alle Terme della Salvarola (http://www.termesalvarola.it/) sulle colline di Modena, il vino diventa un alleato preziosissimo dei trattamenti estetici termali: la pelle riceve una serie di stimoli benefici, e dopo il bagno “enoico”, l’odore della pelle sarà un leggero e piacevole profumo di fiori. L’uva è quella di Lambrusco Grasparossa, generosa e piena di vita, ricchissima di sostanze antiossidanti, la cui funzione è quella di prevenire l’invecchiamento cutaneo. Sono diverse le formule tra cui scegliere per regalarsi momenti di piacevole relax e di bellezza, cogliendo a piene mani dalla ricca cornucopia del dio Bacco.

Al Romantik Hotel Oberwirt di Merlengo, (www.romantikhotels.com/Marling) sopra Merano (BZ) si consuma il piacere di ritrovare preziosi trattamenti naturali. Quattro i pilastri su cui poggia il significato di bellezza per l’hotel: rose, mele, fieno e vino - gli orgogli dell’Alto Adige. Ideale per l’autunno un “sorso” di splendore per la pelle con la vinoterapia, il cui segreto sta nei polifenoli contenuti nei preziosi chicchi. La loro azione attivante sulla microcircolazione sanguigna favorisce l’ossigenazione dei tessuti conservandone l’elasticità.

Nel piccolo borgo medioevale di San Sano a Gaiole in Chianti si vivono atmosfere d’altri tempi e arredi d’epoca rievocano la storia e la vita del Relais Castellare dei Noveschi (www.castellaredenoveschi.com), un’antica torre di avvistamento del 1200 che fu dimora di alcuni granduchi di Toscana. Trasformata alcuni anni fa in un relais di charme con solo 4 suites e ampliata nel luglio scorso con una nuova ala e altre4 suites (8 in tutto) è arricchita da una piccola zona benessere denominata Le Cantine di Bacco dove vengono proposti trattamenti per il corpo a base di polifenoli e resveratrolo. Immersi nella calda acqua di un tino, ricreato secondo le metodologie applicate nella prima spa per vinoterapia di Bordeaux, è possibie abbandonarsi a bagni al vino detossinanti e purificanti. Ossigenazione cellulare e miglioramento del microcircolo sono i primi effetti benefici di questo trattamento vino-balneo-terapico. Estratto d’uva abbinato a una miscela di acido tartarico derivato dall’uva e all’acido citrico genera un’azione altamente levigante.
Che dire, alla fine, se non il classico e appropriatissimo“Salute”!