Il Gazzettino Illustrato: Venezia - Heysel andata (e ritorno)

Me la ricordo bene quella sera che diavoli sono usciti dall'inferno a danzare, macabri e truci, sugli spalti fatiscenti dell'Heysel a seminare la morte tra inermi famiglie di italiani accorse a vedere, lassù in Belgio, la finale Juve-Liverpool di Coppacampioni. Me la ricordo bene. Non si dimenticano i momenti assurdi in cui la morte di passa accanto e lascia sul terreno i segni del suo transito feroce e assurdo.
La notte riporta ancora l'incubo di quei corpi che rotolano giù dagli spalti mentre il pallone già pronto per la gara rotola anche lui lontano dai luoghi della vita e si perde come le anime di quei 39 poveri tifosi, che neri di tumefazioni e asfissia s'allineano disposti da mani pietose sul nudo selciato fuori dallo stadio tra urla di gente in lacrime e di sirene impazzite.

Come è cominciata la sera dei demoni inglesi dell'Heysel? Con una bandiera della Juve provocatoriamente bruciata davanti agli spalti del settore Z. La rete divisoria tra la follia delle creature infernali e qualla delle famiglie italiane - molte quelle venete - che con un charter avevano raggiunto Bruxelles da Venezia, viene scossa come un tamburello con un clangore di catene e la furia di chi sale le maglie metalliche della recinzione per cercare lo scontro fisico e il sangue.
La data è il 29 maggio 1985. Venticinque anni fa. E' una sera calda di primavera che quasi sconfina nelle temperature elevate di una precoce estate. Una lattina di birra con tutto il peso del suo contenuto e i bordi ferocemente affilati, schizza nell'aria e precipita sulla testa di un tifoso veneto dietro di me. L'aria pare attraversata da un lampo di morte: uno zampillo di sangue rosso che si confonde con i raggi purpurei del tramonto. Ma l'aria dilata anche un urlo di dolore raggelante che si distingue come un allarme che sovrasta l'inno di guerra "You'll never walk alone" che gli hooligans cantano brandendo minacciosi le aste delle bandiere verso di noi, folla inerme di famiglie con figli e nonni al seguito che occupiamo il settore Z della curva.

Il corpo cede sulle gambe sopraffatto dal dolore e da urla belluine e si spande l'odore sorprendente del sangue che prorompe dal cranio ferito mentre attorno gli amici sorreggono il corpulento compagno perché non stramazzi a terra di peso e gli tamponano la ferita con un candido fazzoletto che subito s'impregna d'un rosso scarlatto. Il rosso, filtrando tra le dita, dilaga gocciolando sul terreno nudo, scandendo come una clessidra cruenta il tempo del dolore e della fine.

La strage è cominciata. I corpi s'accalcano verso il muro che delimita il settore Z e la rampa di discesa che dal rettangolo di gioco s'insinua verso gli oscuri meandri sotterranei e fatiscenti dello stadio. Cinque, sei, sette metri di vuoto: una discesa appunto. Anche a saltare giù - e bisogna essere atleti ben allenati o semplici uomini disperati per per decidersi a saltare - non s'arriva a terra a pié pari. Eppure alcuni, pressati da coloro che ormai avevano violato il confine delimitato invano da una fragile rete salgono sul muro e cominciano a cadere di sotto fracassandosi le ossa. E sopra i primi cadono altri. La folla preme sul muro per sfuggire agli attacchi, per mettersi in salvo mentre gli hooligans dilagano per uccidere bandendo bastoni, sferrando pugni e calci, massacrando chi è a terra inerme. Inerme allo stesso modo di quando era in piedi in attesa dell'inizio della partita. Ma lo stadio è marcio. Anche il muro è marcio e non tiene più. Gli ultras del Liverpool sono marci di birra. Il muro crolla di schianto su coloro che sono già a terra, tutti rotti, sulla rampa. Quelli che si erano accalcati vanno giù come fantocci con le braccia che annaspano nell'aria e finiscono anche loro sulla rampa sopra i calcinacci sbriciolati che hanno sepolto coloro che erano caduti prima.

Intanto Rodolfo Sartor, uno dei responsabili del Club Juventus di Treviso e notissimo proprietario del pub Capriccio alla Mandonna Granda, mi afferra per un braccio e mi trascina verso il basso, verso il campo e così mi salva la vita. Nella recinzione metallica c'è una porticina. Siamo compressi sulla rete dalla folla che preme. Non si respira più. Rodolfo è alla mia destra anche lui con la faccia schiacciata alla rete. La porticina si scardina sotto la pressione. E' a dieci centimetri. Rodolfo con la forza della disperazione riesce a spingermi nel varco seguendomi. Insieme rotoliamo fuori verso la salvezza, ma giusto in tempo per prenderci una frustata da un poliziotto che ancora - come per altro tutti i suoi colleghi - non aveva realizzato che cosa era accaduto e si sentiva in dovere di frenare quella che a tutti gi effetti era un'autentica, inconfondibile, invasione di campo.

Lì, sulla rete, che noi ormai abbiamo lasciato, qualcuno sviene, qualcuno muore cercando invano un po' d'aria. Altri fuggono alla ricerca di riparo e salvezza. Altri ancora cercano di arrampicarsi sulle maglie della recinzione, altri ancora tentano di passarvi sotto. Quanti ne tiriamo fuori? Dieci, quindici, non so. Poi ci si ritrova a centinaia in mezzo al rettangolo di gioco. Vedo Bruno Schiavon, il famoso titolare del'osteria trevigiana Al ponte Dante, che soccorre alcuni feriti. Lui ha avuto la fortuna di essere risparmiato dall'orda di hooligans scatenati e armati, perché indossava il cappellino della Ferrari, rosso come i colori distintivi dell'orda furente e ubriaca. Per lui la Ferrari era un mito. E quel gadget per la testa preso a Monza era un'icona da esibire con orgoglio e con venerazione. Da quel giorno è il talismano tangibile di una fede salvifica capace di esorcizzare ogni personficazione del male. I diavoli sanguinari erano passati davanti e dietro di lui bastonando e urlando, facendo il vuoto sugli spalti. E lui - nonostante si trovasse proprio vicino alla rete di separazione tra i settori X e Z - era stato lasciato indenne e s'era ritrovato solo, incolume, sulle gradinate a guardare l'opera nefanda dei seminatori di morte, che per via del cappellino lo avevano scambiato per uno di loro.

Ormai la strage e compiuta: 39 morti (32 italiani, 4 belgi, due francesi, un irlandese) e seicento feriti.
Con un gruppo che si è affiancato a me (tra questi c'è anche Gaspare Lucchetta, uno dei fratelli titolari dell'Euromobil di Falzé di Piave), mi posiziono davanti all'accesso alla la tribuna d'onore protetta dallo schieramento di uno squadrone a cavallo. Agito un tesserino in pelle rosso-amaranto e chiamo il ministro Gianni De Michelis. I poliziotti a cavallo tra il tesserino dal colore regale e il grido "monsieur le ministre!" equivocano sul mio ruolo e mi fanno passare con tutto il gruppo. Raggiungiamo la tribuna e scendiamo nella sala interna dove tra i tavoli del sontuoso buffet allestito per le autorità si aggirano corpi macilenti e sanguinanti di feriti che hanno trovato rifugio e qualche cura lì dentro. Noi usciamo in strada. Sul selciato si allineano già una decina di corpi alcuni coperti con lenzuola, altri ancora a cielo aperto. Nessuno di loro ha le scarpe. Nessuno di loro...

Non me la sento più di ricordare tutti i particolari. La morte non è uno spettacolo da esibire anche se qui i corpi, che fino a pochi minuti prima erano persone, appaiono come testimoni inerti eppure urlanti di quali livelli di abiezione può coltivare la malvagità dell'uomo.

Giuseppe Spolaore, di Bassano, aveva 14 anni, allora. E' il figlio di Amedeo morto all'Heysel a 55 anni. Il giovane riportò la frattura di un femore. Ha detto recentemente: "Quella sera a Bruxelles si sono intrecciate e sovrapposte una serie di concause talmente consequenziali e perverse nel loro succerdersi da rendere tutto follemente dirompente. Sicuramente gli hooligans sono stati il fattore scatenante, ma anche l'assenza di polizia, la struttura inadeguata dello stadio, la mancanza di uscite di sicurezza, la tipologia di persone che si trovavano in quel pezzo di curva, l'organizzazione carente hanno fatto il resto". Tecnicamente è stato proprio così. Umanamente no. Perché se il tempo lenisce il dolore di certo non guarisce le ferite dell'anima. E' per questo che bisogna ricordare. Ricordare tutti: Rocco Acerra 29 anni, Bruno Balli 50, Alfons Bos, Giancarlo Bruschera 21, Andrea Casula 11, Giovanni Casula 44, Nino Cerullo 24, Willy Chielens, Giuseppina Conti 17, Dirk Daenecky, Donisio Fabbro 51, Jaques Francois, Eugenio Gagliano 35, Francesco Galli 25, Giancarlo Gonelli 20, Alberto Guarini 21, Govacchino Landini 50, Roberto Lorentini 31, Barbara Lusci 58, Franco Martelli 46, Loris Messore 28, Giovanni Mastrolaco 20, Sergio BastinoMazzino 38, Luciano Rocco Papaluca 38, Luigi Pidone 31, Benito Pistolat 50, Patrick Redcliffe, Domenico Ragazzi 44, Antonio Ragnanese 29, Claude Robet, Mario Ronchi 43, Domenico Russo 28, Tarcisio Salvi 49, Gianfranco Sarto 47, Amedeo Spolaore 55, Mario Spanu 41, Tarcisio Venturin 23, Jean Michel Walla, Claudio Zavaroni 28.

Che dire di più? Che le autorità ci volevano spedire via subito in aereo perché non volevano grattacapi, ma che noi - i vivi - restammo compatti al'ingresso dell'aeroporto fermi nella volontà di cercare negli ospedali tutti i feriti per portarli a casa con noi. E così fu nonostane le minacce e nonostante alcuni venissero "deportati" con i pullman verso un altro scalo distante più di 60 chilometri e spediti a Venezia. Così fu, appunto.

Oggi dell'Heysel è stato cancellata ogni pietra. Lo stadio della morte è stato demolito. Al suo posto nel 2000 è stato costruito uno stadio moderno intitolato all'anima buona di re Baldovino, quasi a esorcizzare quel luogo di morte. Heysel, il nome Heysel e quello che vi accadde, rimane tuttavia nella memoria collettiva dell'Europa come uno dei luoghi dove il male si è manifestato in tutta la sua abbietta potenza in una sera calda di primavera che quasi sconfinava nelle temperature elevate di una precoce estate.

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