Un caffè a San Marco con Fausto Pajar

Tratto da "Il Gazzettino Illustrato" di Agosto 2008
di Bruno Tagliapietra




C'è un "fil rouge" nella vita di Fausto Pajar, giornalista e scrittore ma ancor prima, nell'intimo, montanaro "nordestino": l'amore profondo per la natura e gli animali ma sempre in rapporto all'uomo. Specialmente verso quei personaggi che davanti a un magico paesaggio montano, oppure a una semplice felce non si limitano a guardare ma, proprio come fa lui, vedono, osservano, capiscono e sanno cogliere i messaggi profondi che flora e fauna ci trasmettono. "Sono - come lui ci dice - quei valori che i nostri avi hanno visto, amato e curato, lasciandoceli in eredità e che noi, a nostra volta, trasmettiamo alle generazioni future. Per questo scrivo i miei libri, per affermare che dobbiamo essere custodi appassionati della natura. Altrimenti non riusciremo a capire dove stiamo andando e non scopriremo il segreto della felicità". Pajar, giornalista professionista dalla fine degli anni Sessanta, sposato con due figli, vive per motivi strategici in quel di Quinto di Treviso in quanto lavora a Mestre nella sede centrale de "Il Gazzettino". Ma il suo dna proviene e non si scosta dalle montagne bellunesi dove è nato, nonché da quelle trentine e dell'Alto Adige dove il padre ha operato quale comandante delle varie sedi dei carabinieri dove veniva assegnato. Anche lui montanaro, originario della Val di Non, nato nel 1909, quando il territorio era sotto l'impero Austroungarico e quindi uso al tedesco e per questo utilizzato dal comando dell'Arma nelle aree calde del Tirolo in anni non certo facili.
T a n t i ricordi di quei tempi: belli o brutti?
Ripensandoci ora, alle soglie dei 60 anni, farei un bilancio decisamente positivo. Anche perché ciò che riesco a dare agli altri con il mio lavoro e i miei scritti lo devo alla formazione che ho ricevuto nei paesi di montagna dove ho mosso i primi passi. Come Longarone dove sono nato e dove ho il triste ricordo della morte tragica del mio padrino, il farmacista scomparso nell'immane sciagura del Vajont. Oppure Salorno dove d'estate appena dodicenne ho scritto e stampato in parrocchia con il ciclostile la mia prima fatica giornalistica: il “Gajer Express”. Poi gli anni delle scuole elementari nella provincia di Bolzano. Proprio in questa zona ho vissuto episodi gravi come la morte di uno stradino, saltato in aria per aver strappato con l'erba una bomba dei terroristi, alla chiusa di Salorno. Anche mio padre rischiò prendendo in mano un bussolotto di polvere nera dal ciglio della strada statale per poi neutralizzarlo senza bloccare il traffico (a quei tempi non c'era l'Autobrennero) e senza attendere l'arrivo degli artificieri. Tutto per cercare di non mettere ulteriori esche a una tensione già alta.
E la natura, legata alle montagne, cui si rifanno diversi degli otto tuoi libri finora pubblicati?
Quella e il suo rapporto con gli animali provengono da mio padre. Dalle lunghe camminate per i boschi. Lui aveva il bisogno di avere un fucile per sparare di tanto in tanto e giustificare ai suoi occhi quelle
faticose e lunghe passeggiate. A me serviva come maestro per capire i boschi e i suoi abitanti.
Ma gli studi superiori e l'università non erano possibili in montagna?
Questa è stata l'altra grande occasione della mia vita: gli anni delle medie trascorsi in
collegio dai salesiani a Rovereto. Qui ho imparato che lo studio è una cosa altrettanto seria e impegnativa del lavoro. Ho appreso che la cultura e il sapere sono il sale della vita e che il messaggio cristiano serve a capire il
significato profondo del nostro cammino nel mondo.
Ma l'approccio al giornalismo, dopo l'esperienza da ragazzo a quando risale?
Non ero ancora maggiorenne e già
facevo il corrispondente da Salorno per l'Alto Adige e da figlio del comandante dei carabinieri non mi mancavano gli scoop. Poi da buon trentino ho trascorso qualche estate in Germania a vendere gelati, come tanti giovani per mantenersi agli studi. Fino alla grande occasione, sul finire degli anni Sessanta, quando “Il Giorno” di Milano decise di aprire una redazione a Bolzano che vide l'uscita di parecchi giornalisti dall'Alto Adige e la proposta fattami dall'allora direttore Cavazzani di fare il praticantato alla redazione bolzanina prima, e a quella trentina poi, per diventare professionista. Qui ho vissuto le prime grandi esperienze. Da Trento, non dimentichiamo, uscirono Curcio & C. che governavano il movimento studentesco e la lotta operaia.
Altri ricordi di questa professione tanto strana quanto complessa?
A parte il privilegio mio di "appartenere" ai Cc quando si fa cronaca nera ci vuole anche fortuna. Ricordo la morte per arma da fuoco di un uomo in un maso a Solaiolo di Carano nel Trentino. Quando la notizia venne data alle redazioni tutti i cronisti delle tre testate della città e delle agenzie di stampa partirono in quarta. La mia macchina fece i capricci e io arrivai tardi. Incrociai i colleghi che stavano tornando indietro delusi: gli investigatori avevano detto trattarsi di suicidio. Un uomo si era sparato un colpo di pistola al petto. Ma la mia coscienza mi diceva che dovevo poter dimostrare che anch'io c'ero stato. Quando arrivai vidi il medico legale passare un'asta nel petto del cadavere per vedere dove finiva il foro d'uscita e nel girare il corpo si accorse che i buchi sulla schiena erano due. Alzato un braccio venne alla luce il secondo foro. Dunque era chiaramente un delitto e non suicidio. Il mio giornale fu l'unico a dare questa notizia, da prima pagina per un quotidiano locale.
Quando è avvenuto il salto dai media alla letteratura?
L'occasione risale a un'altra grande tragedia che ho vissuto in prima persona, questa volta come giornalista de "Il Gazzettino" dove ero approdato, ancora praticante, chiamato dall’indimenticabile collega Cesare Piazzetta: il terremoto che sconvolse il Friuli nel 1976. Ho vissuto i momenti dolori e coraggiosi di quelle genti di montagna e degli alpini che in pochi anni cancellarono le profonde ferite dello sisma. Ho fatto il mio primo libro fotografico sul Friuli seguito da un secondo ("C'era una volta il Friuli") sui disagi dei sopravvissuti. Una volta rotto il ghiaccio ci avevo preso gusto. Soprattutto avevo capito quanto rispetto era dovuto alla natura, al fragile rapporto tra l'uomo e il suo habitat e che chi sbagliava eravamo soprattutto noi. Da qui un nuovo modo di guardare all'Heimat, alla patria, come dicono i tedeschi. A quella cultura fatta di racconti a voce, a quell'anima che si illumina alle fiamme di un focolare. Così si sono susseguiti "Serenissimo Alfabeto" su vicende e storie tramadate delle Tre Venezie; "Bengodi della Marca gioiosa" sulla gastronomia trevigiana; "La valle degli Uri", sui mitici e mastodontici buoi dei quali parla anche Giulio Cesare nel “De Bellum Gallico”, sopravvissuti fino al XVII secolo nelle pianure polacche; "Aquile, falchi, orsi e camosci a Nordest e dintorni", serie di racconti sui rapporti tra l'uomo e gli animali. Penultimo, il libro di foto "Romantica Treviso" con le impareggiabili immagini scattate dal fotografo Attilio Moretto per i tipi di Europrint Edizioni di Quinto.
Ultima fatica, appena uscita per Edizioni Biblioteca dell'Immagine di Pordenone, il libro "Santi Montanari". Un omaggio alle figure straordinarie di virtù, amate e venerate dalle genti alpine?
Sì, la valorizzazione di un messaggio che diversi santi hanno dato con la loro vita e i segni che hanno lasciato oggi, anche a distanza di millenni, sulle tradizioni e il sentire delle genti della montagna. Anche questa volta la spinta e il sostegno sono venuti da mia moglie che mi ha aiutato nelle ricerche. Le curiosità sono tante ma l'afflato è ricorrente: non si diventa uomini giusti se non sappiamo inserirci in una natura che Dio ha creato con l'uomo e per l'uomo perchè solo così si dà un senso alla vita. Un libro che ci permette di entrare in un mondo poetico e a volte sentimentale visto sempre con l'occhio del giornalista cui non sfugge il piccolo particolare, quel gesto, quell'aspetto umano che tanto calore dà a chi si lascia avvolgere da un mondo di valori sempreverdi. Così scopriremo il segno di Simone apostolo arrivato fin a Sachet di Valle Agordina in quella terra che ha dato i natali a Papa Luciani; oppure sant'Orso le cui tragiche vicende sono rivissute ancor oggi in Val d'Aosta. Ancora, santa Notburga di Eben la prima "sindacalista" dei contadini schiavizzati nel lavoro del campi nel Medioevo. E via via, san Martino di Tours che con il suo mantello ha influenzato l'economia della Marca facendo sorgere la Converga del Tabarro, che ha riportato in auge il classico, antico mantello veneto originale. In tutto quasi 30 figure importanti non solo per la Chiesa ma anche per aver guidato per secoli la vita reale di milioni e milioni di montanari che ci hanno preservato questo mondo fantastico di vallate e di monti delle Alpi. "Ovviamente - ci confida alla fine Fausto Pajar - ora non posso non passare al nono libro, dedicato questa volta ai "Santi marinari".

Quei santi montanari così «filosofi»

Tratto da l' "Adige" del 20 Agosto 2008
di Alberto Piccioni





Fausto Pajar racconta le grandi figure «d’alta quota», compresi diversi personaggi trentini.

Una schiera di santi montanari, specchio di una religiosità, forte, profonda e radicata, tipica delle genti alpine. Li racconta Fausto Pajar, giornalista di origini trentine, nel suo libro «Santi Montanari» (edizioni Biblioteca dell’immagine), dopo una accurata ricerca sulle fonti popolari, in Trentino e in tutto l’arco alpino. «Quando stavo scrivendo il libro "Aquile, falchi, orsi e camosci" – spiega l’autore - mi sono reso conto che sulle montagne esistevano una miriade di piccole edicole, dedicate a santi, la cui identità mi era sconosciuta, ma non alle genti che quei luoghi abitano da
sempre. Così è successo in un bosco della valle di fiemme: c’era una piccola edicola dove l’affresco centrale era completamente sbiadito. Chiesi ad un boscaiolo di cosa si trattasse e questo quasi si arrabbiò: “Non vede il drago? È San Giorgio!”. Mi resi conto che dove io non vedevo più nulla esisteva in realtà un immagine ben impressa nel cuore di quell’uomo. Per questo ho voluto
raccogliere una tale ricchezza in un libro».
Santi trentini ce ne sono molti, dai più conosciuti martiri anauniensi (Sisinio, Martirio e Alessandro) a quelli meno noti come Benigno e Caro di Malcesine, eremiti del monte Baldo, richiamati dal vescovo di Verona perché accusati di «tenere contubernio» con una certa
Olivetta. La loro storia, legata a delle rape miracolose, è a lieto fine e il vescovo riconoscerà la loro santità.

Pajar, che tipo di religiosità emerge da questi santi?
«Viene fuori che i montanari in realtà sono dei filosofi, pur non avendo studiato filosofia. Capaci di vedere il meglio che la natura sa offrire. Sanno soffrire, parla poco di moda oggi, e affrontare le avversità della vita con un minino di distacco e serenità. Con una forte capacità di gioire per il dovere compiuto».

Ma i santi chi sono?
«Persone normali, che per la loro straordinaria capacità di dedicarsi ai deboli e agli emarginati, assumono un valore massimo agli occhi della gente di montagna. È il caso di Notburga di Eben, una delle prime “sindacaliste” della storia. Con la sua tenacia nel cercare di non far morire di fame i contadini riesce ad ottenere dai “padroni” un miglior trattamento per tutti».

Che cosa conta di più per lei: la veridicità delle storie che narra o il loro valore popolare?
«Sicuramente il valore che hanno per lepersone. È il “sensus fidei” che esprimono, la cultura che hainterpretato la storia dei santi. In realtà io voglio raccontare le splendide montagne e le persone che ci abitano. Ma anche le leggende che vengono tessute intorno ai luoghi e alle persone,
diventano “reali” nel momento in cui sono vissute con forza e devozione dalla gente».

Qual è il santo cui lei è più legato?
«Uno che ha scalato le vette, ma non figura però tra i santi montanari: don Giovanni Bosco. Ho studiato dai salesiani e ancora mi considero un alunno salesiano».

Con questo libro ha esaurito i santi delle montagne o ce ne sono altri di cui parlare?
«Nel martirologio romano sono più di 6000. Nel libro ho voluto fare una prima selezione, ma è solo “un granello di sabbia” nel mare delle figure dei santidella montagna».

Popolo di santi e alcuni sono montanari doc





Tratto da Alto Adige, Trentino, Corriere delle Alpi del 15 Agosto 2008
di Toni Sirena

Con i santi di montagna la fede ci guadagna, si potrebbe dire parafrasando un noto slogan pubblicitario. Fausto Pajar, giornalista di terre miste (famiglia trentina, nato a Longarone, vita in Friuli, casa a Treviso), mette in fila i santi montanari («Santi montanari», Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, pagine 130, euro 12). In realtà, tra i molti ne ha scelti 26, quelli che gli sono parsi più significativi o interessanti o curiosi, visto che il catalogo ufficiale dei santi ne conta 9900 (si arriva a ventimila, però, secondo un’enciclopedia specialistica). Lo dice lo stesso autore: tutti i santi montanari sono qui raccontati? «Ovviamente no, perché i santi sono in numero incommensurabile». Insomma, la pattuglia dei 26 è solo una piccolissima parte dei santi montanari. Però, che pattuglia. Montanari perché? Perchè o sono nati in montagna o in montagna ci sono arrivati, magari per essere martirizzati, o perché in montagna sono venerati. Succede così che nei «magnifici 26» ci sta tutto un Ojüp Freinademetz, nato a Oies in alta val Badia e finito in Cina. O i santi nonesi Sisinio, Martirio (un nome, un programma) e Alessandro che erano di Cappadocia e finirono ammazzati in Anaunia. O San Martino, che veniva dalla Pannonia. O sarà invece che la venerazione per siffatti e sitanti discende dal fatto che sono patroni di boscaioli, guardie forestali, falegnami, pellegrini, cacciatori, oppure eremiti in valli profonde, sterminatori di basilisk che popolavano le fantasie valligiane, addomesticatori di orsi e altre fiere dei boschi, spegnitori di incendi? Miracoli, comunque. Perché non basta, per la patente di santo, elevarsi a perenne esempio di virtù eroiche (dove l’eroismo è un’indomita professione di fede), ma occorre (occorrerebbe) un miracolo certificato. Sicchè qualcuno di questi santi montanari risulta camminare sulle acque come Gesù, o provvedere di prole spose sterili (e qui il santo in questione, Romedio, si confonde con un altro, Mamante, e con le molte madonne lattifere), o cavalcare l’orso, o lanciare in aria falcetti che restano appesi a un raggio di sole. Questo per i santi non martiri. I martiri santi, invece, preferirono la morte all’abiura. Così per non rinnegare Cristo come fece Pietro tre volte (che comunque santo diventò lo stesso), ecco gli egiziani di san Maurizio, dirottati dal deserto alle Alpi per piegare tribù barbare, finire sterminati dall’imperatore Massimiano Erculeo, con più muscoli che cervello come dice il nome e come dice Pajar: erano, per la esatta contabilità, 6666 i militi della Legione Tebea scaraventati nel Vallese che rifiutarono di inchinarsi agli idoli. In tutta questa ecatombe uno solo dei morti, però, fece carriera da santo, cioè il loro comandante, Maurizio, che diventò poi protettore degli Alpini ma anche, non a caso, dei generali.

Il libro racconta i santi in ordine alfabetico, sicché non poteva che aprirsi con Sant’Antonio. Quello del porzèl, però, l’Antonio Abate, protettore degli animali (domestici), anacoreta egizio le cui gesta si confondono un po’ con quelle di Prometeo. Scese infatti coraggiosamente all’inferno per portare su il fuoco e regalarlo agli uomini. Il maiale c’entra perché aiutò Sant’Antonio nell’impresa. «Montanaro» forse perché venerato dai pastori e dagli allevatori che, si sa, sono più numerosi in montagna. Benigno e Caro, invece, sono santi del monte Baldo, che scelsero per romitaggio una spelonca ma che però, secondo l’accusa mossa loro dal vescovo, se la intendevano con una certa Olivetta. Il loro miracolo fu di convincere il vescovo della falsità dell’accusa portandogli in regalo due rape seminate, testimone il diacono inviato dal vescovo, la notte prima, e cresciute grandi come meloni. E poi, tanto per far capire al vescovo la loro santità, appesero ad asciugare i loro sai su un raggio di sole. Bernardo d’Aosta, lui sì, fu santo montanaro a tutto tondo. Sgombrò il mons Jovis dal demonio prendendolo per la collottola e ci fondò un monastero per assistere i viandanti e i «pellegrini della montagna», e così diventò il patrono degli alpinisti (ma solo dal 1923, forse perché, prima, l’alpinismo non era stato inventato). Biagio viveva in una grotta nei boschi dell’Armenia e lì compì il primo miracolo: tolse con la sola benedizione una spina dalla gola di un bambino, e da allora è protettore della gola. Il secondo miracolo fu il camminare sulle acque quando volevano martirizzarlo per annegamento. Ma lui, che era buono, per non deludere i suoi carnefici, invece di scappare tornò a riva per potersi fare martire in un altro modo, decapitato. Se fuoco e acqua, soprattutto in tempi antichi, erano flagelli di montagna, non poteva non esserci un protettore contro incendi di tabià e alluvioni: è Floriano, sempre rappresentato mentre versa acqua dal cielo con una mastella. E’ devozione nordestina e transfrontaliera, tra Carnia Veneto Slovenia Carinzia e Trentino. Tanto più che secondo lo storico bellunese Giorgio Piloni (1607) Floriano venne martirizzato a Lorenzago di Cadore. Località contesa con Vicenza, dove riposano in realtà le reliquie. Erano contese consuete. Basterà citare un San Valentino patrono degli innamorati il cui corpo starebbe in tre diverse città e paesi tra cui Limana (Belluno). San Gallo, così italianizzato dall’irlandese Gallech, deve il suo ruolo, quello di patrono di galli e galline, solo al suo nome. Fu uno dei tanti santi che, presi da pio zelo, dedicarono la vita a dar fuoco a idoli e templi pagani tanto da suscitare l’ira degli abitanti e buscarle. San Giorgio è quello del drago, che poi sarebbe un basilisco dal fiato puzzolente. E’ sicuro che morì decapitato in Palestina, lui originario di Cappadocia. Però a Mezzocorona in Trentino si indica ancora la tana del basilisco, anche se il cavaliere che lo uccise salvando la fanciulla qui si chiama conte Firmian. Lucano invece trasfigura in uomo dei boschi, che si ritirò nelle foreste della val di Fiemme e fece vita solitaria sopravvivendo grazie al latte di una capretta che lui trasformava in formaggi: a ben vedere è proprio l’om salvarech che insegna agli uomini la lavorazione del latte. Da segnalare, però, che altri resoconti lo avvistano in val di San Lucano, comune di Taibon Agordino. Di Martino si è detto, resta da segnalare che è patrono di Belluno, che tagliò un lembo del mantello per riparare un povero dal freddo, che è protettore di cavalieri e viaggiatori, osti e albergatori: per un verso o per l’altro, Martino di Tours c’entra con il turismo di montagna. Anche dei martiri nonesi si è detto. Sisinio, Martirio e Alessandro fan parte degli iconoclasti. Spediti dal vescovo di Trento, Vigilio, a convertire i nonesi e ad abbattere i loro idoli. Terribili erano i nonesi all’epoca, a credere a Vigilio: «popolani idolatri», che «ululano carmi diabolici». Sisinio si intromette durante un sacrificio a Saturno, sicché viene percosso in testa dall’uno con la tromba, dall’altro con la scure. Martirio cerca scampo nell’orto di una vicina che però lo denuncia, sicchè viene trafitto con dei pali. Alessandro, pure lui, viene preso e trascinato fino a morte. Poi tutti e tre vengono gettati nel fuoco. Siamo nel 397, per la cronaca. A questo punto anche Vigilio, che aveva mandato i tre in Anaunia, decide di salire in quel «luogo concavo fra i monti e risuonante di echi» tanto da fare «sinistra impressione». Sarà che Vigilio era uno di città e i monti erano ancora un «hic sunt leones». Sicché va in Rendena, zona tra i monti assai orrida. E lì fa la fine dei santi nonesi. Prende un idolo, lo spezza e lo getta nel Sarca. Mal gliene incoglie: i rendereni inferociti lo lapidano, si dice con pagnotte stantie ma chissà se c’è da crederci. La storia della madonna di Pietralba, dove oggi sorge il santuario mariano, è singolare, perché il protagonista assomiglia molto a uno di quei pazzi in Dio tipici della religiosità russa che nella follia vede un segno del Signore. C’era una volta un giovane malato di mente, salvato dalla Madonna mentre errava per la montagna che gli era apparsa e gli aveva indicato dove scavare per trovare la sua immagine, una statuetta che ancor oggi si conserva nel santuario. Notberga di Eben, patrona delle domestiche, è invece una santa tirolese, la cui storia risale al 1200. Rubava ai ricchi per dare ai poveri. Nel senso che rubava gli avanzi dei lauti banchetti dei suoi padroni, che di solito gettavano ai porci. Con un po’ di miracoli riuscì a convincere i duri cuori dei padroni. Salvo una che, non dandole retta, morì all’improvviso, e la sua anima finì per contrappasso insieme ai maiali a nutrirsi degli avanzi che non aveva voluto regalare. Se Pietralba sorse per indicazione della Madonna, il posto del santuario di San Romedio in valle di Non fu indicato dal Signore. Perché dovete sapere che Romedio fu un santo edificante, nel senso delle anime, ma anche delle opere. Voleva costruire una chiesetta, ma ogni volta i corvi gli portavano via il legname andando a depositarlo su una rupe scoscesa. Fu lì, dunque, che Romedio finì per costruirla: visto lo spazio ristretto, il santuario oggi consta di cinque chiesette una sopra l’altra. Ma Romedio è noto anche per le sue frequentazioni con un orso, che cavalcava per la meraviglia dei fedeli dopo che questo gli aveva sbranato il cavallo. Patrono di Vallada Agordina è invece Simone Apostolo. Essendo stato segato in due in Mesopotamia, è diventato il patrono di chi taglia legname, o marmo, o pietra. E a Vallada, sul Biois, le segherie un tempo erano numerose. Ujöp Freinademetz della val Badia, santo dal 2003, è il vanto della chiesa ladina. Visse 29 anni in Cina, rischiò la morte durante la guerra dei Boxers che gli davano la caccia perché straniero. Al suo arrivo mostrava assai scarsa considerazione dei cinesi, ma poi dovette ricredersi. Alla fine ammise: «Sono ormai più cinese che tirolese». Morì (di tifo) che vestiva alla cinese e lo chiamavano Fu Shenfu. La morale di tutto questo? Santi in montagna lo si può diventare in tanti modi, e in montagna non occorre esserci nati. Certo servirà per forza un miracolo, ma forse non l’aver compiuto imprese clamorose. Tant’è vero che si sostiene che Papa Luciani di Canale d’Agordo, ormai sulla strada buona per diventare beato, esercitò le virtù eroiche interpretandole come esercizio quotidiano.

K2, Confortola a pochi passi dalla salvezza

Tratto da "Il Gazzettino"
di Fausto Pajar, 5 Agosto 2008

Con i piedi semicongelati, accompagnato da due portatori e un alpinista americano, Marco Confortola è riuscito a raggiungere le tende di campo base 1. Consumata la tragedia sul K2 con un bilancio definitivo di 11 morti, l'alpinista italiano, molto faticosamente, sta cercando di portarsi in salvo. Ha parlato per pochi minuti al telefono con il fratello e lo ha rassicurato, ma ha anche chiesto ulteriori soccorsi. E mentre al Gilkey Memoriale, nei pressi del campo base, si incidono sui piatti di alluminio i nomi delle vittime, cresce la polemica sugli errori compiuti. Lo stesso Marco Confortola, per altro scalatore esperto e riconosciuto, dovrà fornire spiegazioni. Errori che, in base alle informazioni giunte finora, appaiono per molti versi inspiegabili. Le accuse più frequenti sono di imprudenza, inesperienza e scarsa preparazione.

Il gelo è il lupo assassino delle vette assolute. Non ha forma belluina, ma possiede denti di ghiaccio che trafiggono la carne come chiodi e la fanno morire lentamente, che tolgono il respiro e fanno cadere - nere come carboni spenti - le dita delle mani e quelle dei piedi. Toio De Savorgnani, trevigiano del Vittoriese di famiglia cimbra, ha vissuto e sofferto il congelamento sulle altissime vette di quelle montagne himalaiane. Ne porta i segni sulle mani.
Toio, come avviene?
Avviene perchè sei in condizione di stress e sei in alta quota, più si sale più diminuiisce l'ossigenazione dei tessuti e quindi il congelamento parte.
Anche se uno è ben attrezzato?
Non esiste questo discorso. Se sei costretto a restare fermo in alta quota, anche con una buona attrezzatura, può accadere che ti congeli. Certi incidenti, che a leggerli sembrano drammatici, poi in realtà sono incidenti non gravi, solo una caduta di qualche metro in un crepaccio. Però la caduta è devastante perchè la reattività del fisico è molto ridotta.
Da cosa?
Dalla difficoltà di respirazione e dalla prostazione. Uno si sente veramente e costantemente al limite delle proprie capacità. Mano a mano che si sale verso la cima il fisico si adatta, ma più sali più questo adattamento diventa faticoso.
Tu hai esperienza personale.
Sì, con la spedizione al Manaslu del 1979, che era guidata dal padovano Lorenzo Massarotto.
Cosa è successo allora?
A 7700 metri, una raffica di slavine ha coperto, di notte, la tenda nella quale mi trovavo con Elvio Terrin di Venezia e dalla quale siamo fuggiti velocemente per paura che una slavina più grossa disancorasse la tenda stessa travolgendoci e scagliandoci a valle per duemila metri.
Dove vi trovavate?
La tenda era su un ghiacciaio con settanta gradi di pendenza.
Cosa si prova nei momenti estremi?
Non provi qualcosa di particolare, hai l'istito di sopravvivenza che ti fa reagire in maniera automatica perchè hai la percerzione costante del pericolo e questo sveglia altri sensi umani che conoscono solo coloro che li hanno sperimentati. Come quelli che hanno vissuto la ritirata di Russia. Mio padre l'ha fatta e penso che abbia passato un'esperienza analoga alla mia.
Che fare in quei frangenti?
So che c'è come una spinta automatica. Non c'è sensazione di dolore. Forse interviene uno stato di trance che ti spinge ad andare avanti, verso una meta.
Cosa ricordi del Manaslu?
Dopo una settimana ci siamo trovati con altri 7 alpinisti proveninti dall'Himalaia all'ospedale di Innsbruck, in Austra, dove in quegli anni anni erano bravi a curare i congelamenti. Solo allora abbiamo saputo che, la nostra notte, sull'Himalaia c'erano 40 gradi sotto zero e il vento soffiava a 150 km.
C'è una cosiderazione da fare?
Sì. Piango i morti. Poi dico che, da una parte, chi va ad affrontare queste esperienze dovrebbe avere la consapevolezza dell'altissimo rischio che affronta; dall'altra parte, che bisogna essere preparati al massimo possibile e bisogna contare solo ed esclusivamente sulle proprie forze, fisiche a psichiche e poi, ma dopo, sull'attrezzatura.
In Himalaia vanno impreparati?
In Himalaia stanno avvenendo troppi incidenti perché ci vanno alpinisti non preparati ad affrontare quelle difficoltà estreme e che contano troppo sulle corde fisse lasciate dalle altre spedizioni. L'alpinismo himalaiano dovrebbe essere un' esperienza quasi mistica e non un evento consumistico. Non voglio polemizzare ma ogni scalatore sa che tutto quel casino che hanno fatto con l'elicottero "salvatore" non serve se non ai media. L'elicottero ti salva quando sei già in salvo. Bisogna ricordarsi che in montagna ti salvi sempre da solo.

È morto Solzhenitsyn, lo scrittore che svelò l'inferno dei gulag sovietici

Tratto da "Il Gazzettino"
di Fausto Pajar, 4 Agosto 2008

Lo scrittore sovietico e dissidente, premio Nobel per la letteratura, Alexandr Solzhenitsyn è morto ieri all'età di 89 anni nella sua casa di Mosca per un infarto. L'autore di "Arcipelago Gulag" e di "Una giornata di Ivan Denisovic", vinse il Nobel nel 1970. Il presidente russo Dmitri Medvedev ha espresso le sue condoglianze alla famiglia.
«Mi inchino su questa terra, in cui centinaia di migliaia, forse milioni di compatrioti sono stati sepolti dopo le esecuzioni».
La lacerante e dolorosa - ma veritiera - affermazione dell' autore di «Arcipelago Gulag», è l'omaggio di Alexandr Solzhenitsyn , premio nobel per la letteratura, da cittadino russo ai russi fagocitati nel grande nulla della Siberia nel progetto devastante della dittatura staliniana. Ed è sempre lui a ricordare che forse anche nel nuovo corso della Russia rinascente qualche smemoratezza forse esiste nella cultura e nella politica dei signori che anelano alla democrazia.
«In queste ore - afferma appena messo piede sul suolo della patria, dopo 20 anni di esilio - in cui nuove passioni sono sollevate dai cambiamenti politici, quei milioni di vittime sono state dimenticate alla leggera».
Sono parole di fuoco che vengono da una sofferenza antica e vissuta, dalle memorie non trascurabili di devastazioni dei corpi e degli animi nelle sperdute lande in cui la lotta con il gelo della natura non era da meno di quella necessaria alla sopravvivenza tra larve di uomini cacciati dalla memoria e dalla storia.
Solzenitsyn resta la pietra miliare della storia di un popolo. Resta sicuramente come la fiaccola che ha tentato di scongelare i territori dell'anima russa che vive con grande passione e grande dolore tutte le sue vicende esaltanti o dolorose.
Al suo arrivo gli venne offerto pane e sale. La dolcezza della vita russa e l'asprezza della stessa vita. Ma senza sale non c'è buon pane. Senza verità non c'è giustizia.
Giustamente ha scritto in quel periodo il nostro Carlo Sgorlon del senso del ritorno di quell'esule.
«Egli non è - aveva detto Sgorlon, su queste pagine - soltanto uno scrittore, ma uno scrittore-profeta, che vorrebbe impersonare una coscienza morale, religiosa e politica che oggi pare perduta. È uno scrittore-vate, ossia una figura che da noi non esiste più da decenni, e forse non è mai esistita dopo Dante».
È vero, per capire un così grande scrittore poi finito nell'oblio, perché troppo grande è stata l'accusa contro la tirannide devastante del socialismo reale, bisognerebbe ricordare «i pellegrini di Dio», i «vecchi credenti», tutte cose che Sgorlon ha puntualmente evidenziato rimarcando anche la sua caratteristica di erede della «santa madre Russia» e della spiritualità profonda e pervasiva dell'esistenza, che solo chi si è abbeverato a Dostoevsky e a Tolstoj, reca nella bisaccia del cuore come un pane che conforta nelle tristezze e nei dolori devastanti della vita.
Forse non è uno scrittore di livelli assoluti, per certe sue prolissità e ripetitività che gli sono state rinfacciate dai critici e dagli esperti, tuttavia la sua qualità distintiva è quella della testimonianza: è lui che smaschera la tirannide sanguinaria del sistema staliniano, che racconta gli obbrobri e gli orrori che rendono fratelli nelle stragi Stalin e Hitler, che coniugano un'epoca storica di furore disumano e antiumanistico.
La morte come metodologia del potere, la forca o l'emarginazione brutale come prassi del modello ideologico.
Il lager e il gulag come luogo di sterminio di nemici presunti. Nemici solo perché diversi.
Solo oggi, anche grazie a Solzhenitsyn , si è capito che l'indifferenza cresce mano a mano che scompare la differenza.
Il profeta delle vittime oscure e dimenticate dello stalinismo ha cessato di combattere qui con noi, in questo tempo. Di sicuro combatterà ancora attraverso i suoi scritti rimasti tra noi.
Nel 1970 gli era stato assegnato il Nobel per la letteratura. Nel 1974 era stato privato della cittadinanza sovietica ed espulso. Aveva vissuto esule in Germania, Svizzera e negli stati Uniti. Al suo ritorno in patria nel 1994, dopo la dissoluzione dell'Urss, Alexandr non trova più la sua terra, neppure quella che lo statunitense Henry Kissinger sostiene minaccerà sempre l'Occidente. Infatti trova che la Russia, nel volgere di una giornata si è trovata priva di 8 regioni prettamente russe, di 25 milioni di cittadini d'etnia russa, che «d'un tratto - come ha scritto Cristina Bongiorno - sono finiti nella condizione di stranieri indesiderati».
L'erede celebrato di Tolstoj e Dostoevsy chiude la sua esistenza alle soglie dei 90, come un patriarca russo autentico. Forse ci si potrà dimenticare di lui. Ma sicuramente non ci si potrà dimenticare del suo «Arcipelago Gulag». Un libro che ha aperto gli occhi a milioni di persone.

Incontri con l'autore

Giovedì 31 Luglio il libro Santi Montanari è stato presentato presso la biblioteca di Cavalese e il municipio di Predazzo.

Tratto dalla locandina "Incontri con l'autore" di Predazzo

Chi erano Benigno e Caro, eremiti del monte Baldo? E cosa hanno a che fare con le rape? Perchè e come Bernardo d'Aosta ha cambiato la storia d'Europa e viene associato ai famosi cani omonini utilizzati per salvataggi in montagna? Perchè il patrono delle Guardie Forestali è San Giovanni Gualberto, un fiorentino? E chi era San Gallo, il diffusore delle campane come segnale per scandire le ore della preghiera nei monasteri e del lavoro nei villaggi, cos' venerato in Svizzera come in Friuli? O Floriano di Lorch, sempre raffigurato mentre spegne l'incendio di un castello con un mastello d'acqua? Questo libro ci accompagna dentro i boschi, tra i valichi di montagna, nell'acqua dei ruscelli e nelle valli, per raccontare le straordinarie storie di tanti santi venerati ancora oggi dalle genti alpine.

E' in libreria l'ultima fatica di Fausto Pajar, giornalista e scrittore "Santi Montanari" presentato recentemente al salone del Libro di Torino

Tratto da Nordest Economia di Luglio/Agosto 2008

di Luca Chiereghin

Le vite dei Santi raccontano l’esperienza umana resa unica dall’incontro con Di. In “Santi Montanari” edito da Edizioni Biblioteca dell’Immagine e presentato allo scorso Salone del Libro di Torino, Fausto Pajar, giornalista de “il Gazzettino” e scrittore affronta un tema delicato e misterioso che scalda il cuore a chi è toccato dalla fede e mette il dubbio in coloro che per varie ragioni sono lontani o semplicemente non credono. A fare da sfondo alle meravigliose storie di questi santi, più o meno noti, è la montagna con la sua verticalità che, naturalmente, sospinge verso la riflessione sull’Asooluto. Pajar, da quel narratore colto e profondo che è, ci traghetta in un mondo sconosciuto e fantastico dove santi medievali e moderni si alternano alle vicende umane che attraversano amene località. Dalla fede primigenia dei martiri cristiani veniamo a conoscenza di Giustino il patrono dei filosofi, ci imbattiamo in Lugano, l’eremita ascetico che dimorava nella Val di Fiemme, in San Gallo, amato nel cantone elvetico, assaporiamo il racconto della vita di Benigno e Caro di Malcesine, gli eremiti del Monte Baldo che riuscivano a far crescere rape gigantesche nel loro orto benedetto. I racconti di questi santi, non tutti da calendario, sono piccole perle di tradizione popolare che diventano poetica dei semplici, parabola degli ultimi, esemplificazione in vita del messaggio evangelico. La narrazione è briosa, compita, resa ancor più vivida dalle descrizioni paesaggistiche dove la natura è spettatrice dei prodigi dei santi montanari e custode della loro pace incorruttibile. L’autore ci trasporta in un mondo che sembra fatato, dove gli stessi nomi dei santi sembrano essere evocazioni leggendarie. Eppure, nella memoria di chi vive in quei luoghi incantati, il ricordo di questi santi è reale, rinnovato nei giorni a loro intitolati. Sono ventiquattro storie per ventiquattro figure di donne e uomini toccati dalla grazia di Dio. E si sa che Dio non sceglie a caso i propri messaggeri. Li misura in umiltà, obbedienza e carità. Come è avvenuto per Notburga di Eben, la prima sindacalista dei campi. La fantesca che donava ai poveri gli appetitosi avanzi dei suoi padroni destinati a nutrire i porci o il folle di Weissenstein che nella sua pazzia trovava pace solo nella contemplazione della Vergine. Il tratteggio della vita di questi santi di montagna è anche la mappa preziosa per visitare pievi e luoghi incontaminati, come Sachet di Vallada Agordina in provincia di Belluno dove, nella chiesetta di San Simone apostolo, spicca un meraviglioso affresco del pittore trevigiano Paris Bordone. Come racconta Fausto Pajar La pieve di San Simone Zelota (patrimonio nazionale) è celata nel bosco ma possiede una forza espressiva di portata incommensurabile, resa anche più potente dall’affresco dell’ultima cena dove Giuda è raffigurato senza aureola ed è l’unico a non essere scalzo. “Santi Montanari” è uno scrigno di informazioni e spunti di ricerca che traggono fondamento storico, come scrive Pajar nella postfazione, dal “Martirologio Romano” dei santi che ne censisce ben 9.900 anche se ci sono pubblicazioni che ne contano quasi ventimila. La Provvidenza, si sa, non conosce limiti.

Ricca religiosità popolare

da "La vita del popolo" del 27 Luglio 2008
inserto speciale "Luoghi dello spirito" del numero 30

Sarà pure caratterizzata da fervida fantasia, da grande creatività, ma nessuno può dubitare della sua genuinità. La religiosità popolare è vissuta sì col cuore, ma si traduce in riti antichi, in tradizioni, spesso al limite della superstizione, frutto di una cultura orale mai codificata, patrimonio di avi remoti, perciò "sacra". Si risolve in "pillole di saggezza", in proverbi, in modi di dire che decifrano eventi e orientano l'agire.
Con "Santi Montanari", edizioni Biblioteca dell'Immagine, Fausto Pajar lascia le colonne del "Gazzettino" per trasferirsi al fresco delle verdi vallate alpine, nei sentieri che s'addentrano nei boschi che conoscono il linguaggio del vento o quello impalpabile della neve, sulle rive di ruscelli dall'acqua limpida, monotona eppur giuliva, nei tanti villaggi alpini abbarbicati su architetture disegnate dal tempo e dalle stagioni. Un itinerario, una ricerca che non possono essere letti come dettati unicamente dalla curiosità, pur interessante, di ricostruire stili di vita e credenze popolari, né dalla semplice constatazione che "non c'è villaggio alpino, per minuscolo che sia, che non abbia la sua chiesa e sparse, anche nei boschi più appartati e remoti, cappelline ed edicole votive dedicate a santi spesso sconosciuti".
Del lavoro di Pajar va piuttosto apprezzata la felice sintesi di elementi reciprocamente armonizzati, sino a diventare quasi interdipendenti.
La sua galleria di santi - alcuni noti alla pietà popolare, altri semisconosciuti o ignorati - diventa quasi funzionale alla ricostruzione di credenze popolari ormai radicate e per fortuna ancora vive nelle valli alpine così care all'autore. Si salda perfettamente con un ambiente dal fascino irripetibile, con un mondo dove tutto ancora sa di antico, di profumi e sapori purtroppo da molti ignorati, di semplicità di vita legata a valori forti, sempre all'interno di "una dimensione del sacro coltivato spesso con semplicità ma sempre con profonda adesione interiore ed anche informale". I santi che Pajar ci presenta diventano improvvisamente familiari e amati e si propongono come paradigma ed esempio.
L'autore ne evidenzia la caratteristica che li connota. Poco importa che si chiamino Antonio Abate o Romedio, Martino o Giovanni Gualberto, Biagio o Notburga.... La loro vita è stata scandita dalla carità e dalla preghiera, oltre che dalla promozione incarnando pienamente il messaggio evangelico. Per riscoprirli in quelle montagne dove il finito sembra protendersi con più slancio verso l'alto.