DOLOMITI, TERRA LADINA

Tratto da "Corriere del Veneto" del 15 Dicembre

STAPPATA LA BOTTIGLIA IL TAPPO DI SUGHERO SERVE ANCORA

Tratto da "TasteVin" Ottobre/Novembre 2009

I tappi di sughero non vanno buttati via. Possono essere riutilizzati in varie maniere. Con lo slogan "Tappo a chi?" il Consorzio nazionale per la raccolta, il recupero e il riciclo dei rifiuti di imballaggio di legno "Rilegno", ha promosso l'attività di raccolta e recupero dei tappi di sughero che sigillano bottiglie di vino, barattoli e contenitori di ogni genere. L'origine del progetto, di carattere squisitamente ecologico, trova la sua origine in esperienze innovative e pilota messe in atto negli anni scorsi durante il Vinitaly alla Fiera di Verona e si sviluppato con interesse crescente in cinque regioni italiane comprendenti il Piemonte, la Lombardia, il Trentino-Sudtirolo, il Veneto e l'Emilia Romagna in collaborazione con il Movimento Turismo del vino e c'è ormai la certezza che il progetto si estenderà, per tappe successive, a tutte le regioni d'Italia. L'interese riservato all'iniziativa - che ha preso ufficialmente il via il 31 maggio scorso durante la giornata di "Cantine aperte" con la partecipazione di oltre 300 aziende aderenti al progetto di "Rilegno" - potrà avere una prima verifica concreta in occasione di "San Martino in cantina", evento che avrà luogo il 15 novembre prossimo. Le cantine aderenti sono ben individuabii perché espongono la locandina di partecipazione, un sacco di juta per la raccolta dei tappi e un adesivo che indica la partecipazione all'eco-progetto "Tappo a chi?". Fausto Crema, presidente di "Rilegno", ha spiegato che "L'iniziativa 'Tappo a chi?' è aperta a tutti (cantine, enoteche, ristoratori, onlus e associazioni di volontariato) ed ha una vocazione sociale". I proventi ricavati dalla raccolta di tappi di sughero verranno infatti devoluti per il finanziamento di iniziatie di carattere sociale in dividuate in collaborazione con i partner del progetto, differenziati per territorio."Il sughero - commenta ancora Fausto Crema - è un materiale prezioso, riciclabile al 100%. Il Consorzio 'Rilegno' , che ha attivato un sistema in grado di avviare al riciclo oltre 1600 tonnellate di rifiuti di legno ogni anno, si è posto l'obietivo di avviare al riciclo anche le circa 5000 tonnellate di sughero circolanti in Italia attualmente: il sughero recuperato dai tappi e debitamente trasfomato dall'industria del riciclo può infatti diventare materiale per panneli fonoassorbenti, pannelli termoisolanti, componenti per calzature come tacchi e solette".Il sughero - come ben si sa - è una sorta di corteccia protettiva della 'Quercus suber L.' una pianta diffusa nel Mediterraneo centrale e occidentale (Italia, Marocco, Algeria, Tunisia, Portogallo, Spagna, Francia del Sud). In Italia cresce prevalentemente in Sardegna, ma anche in Sicilia e Toscana. Attualmente su 36 mila kilometri di sugherete del Mediteraneo, circa 20mila vengono sfruttate economicamente con l'estrazione di 300mila tonnelate di sughero all'anno di cui circa 15mila in Italia (12mila solo in Sardegna). Il sughero si ottiene decorticando la pianta una volta ogni dieci anni incidendo con un'accetta speciale la corteccia in corrispondenza della prima biforcazione dei rami e aprendola fino al piede con un taglio longitudinale. il primo raccolto può essere eseguito soltanto quando la pianta raggiunge la circonferenza di 60 centimetri a petto d'uomo. Dopo la stagionatura, che dura mesi, il sughero può essere lavorato e per le sue ottime caratteristiche isolanti viene utilizzato nella produzione dei tappi per vini di qualità, nell'edilizia, nell'isolamento acustico, ma anche nella creazione di oggetti artistici e di calzature. L'industria dei tappi di sughero per vini di pregio costituisce oggi il 60-70% del mercato mondiale del sughero, corrispondente a circa 15-20 miliardi di tappi all'anno, la metà dei quali in sughero pregiato monopezzo per vini di qualità e l'altra metà in agglomerati per vin di media qualità.Chi azzarda previsioni sostiene che l'iniziativa di "Rilegno" si avvia a un successo notevole. Il 15 novembre avremo i dati definitivi.

Fausto Pajar

Tratto da "Vita Trentina" 6 Dicembre 2009










"Le dolomiti sono diventate terra di conquista"


Tratto da "Corriere della Sera - Corriere del Veneto" del 24 novembre 2009

INTERVISTA A TONE VALERUZ


di Fausto Pajar

Lo scalatore Tone Valeruz è nato e cresciuto in val di Fassa. Le sue imprese alpinistiche e sciistiche estreme (la discesa con gli sci dalle cime più affascinanti della terra) sono ben note a tutti gi appassionati della montagna. A lui abbiamo chiesto di commentare, da ladino di Fassa, l'inserimento delle Dolomiti nell'elenco del patrimonio dell'umanità dell'Unesco, di raccontare speranze e attese, pericoli e timori, di suggerire anche percorsi possibili per la valorizzazione e la conservazione delle Dolomiti. In sostanza di parlare della sua terra.


Che cosa rappresentano per lei le Dolomiti?"Per me le Dolomiti sono prima di tutto montagne uniche come conformazione geologica e spettacolarità scenografica e fotografica, ma non sono certo le uniche montagne al mondo. Bisogna considerare che le Dolomiti, contrariamente a tante altre montagne sono abitate da millenni e di conseguenza fino a poco tempo fa erano viste dai tribali del posto come qualcosa di freddo, inospitale e pericoloso". Di certo vivere in montagna, soprattutto in passato, non è mai stato facile?"Sì certo. E' un dato di fatto storico.Ma non mi voglio riferire soltanto alle condizioni ambientali, alle difficoltà umane. Mi riferisco in particolare ai contenuti culturali derivanti. Non a caso, per queste ragioni di difficoltà oggettiva, in queste terre, tra questa mia gente, tra queste popolazioni, sono nate nel tempo favole e leggende di vario tipo. Alcune anche poco piacevoli perché parlano di un mondo popolato da orchi e da streghe, gentaglia immaginaria o forse no, comunque non proprio raccomandabile. Poi con l'avvento dell'alpismo e poi del turismo le ose sono cambiate in maniera non sempre positiva soprattutto per la gestione del territorio". In che modo sono avvenuti i camiamenti e da he cosa sono stati indotti?"Diciamo che anche noi tribali sentendo il profumo dei soldi (ma vale per quasi tutti) perdiamo inesorabilmente le nobili ragioni dei nostri antenati. Noi sopratttutto siamo riusciti a trasformare le Dolomiti in terre di conquista. Tutto dipende molo da come il dolomitante, quello vero, intende vivere all'ombra di queste montagne, in generale. Ormai non esiste più una grande differenza tra noi tribali e un qalsiasi turista che viene qui qualche giorno a soggiornare. Io credo che le Dolomiti per chi è nato e vive qui costituiscano una questione di valori prima di tutto interiori. Se una persona, fin dalla nascita, non possiede dentro questi valori, difficilmente è propenso a rispettare nei minimi particolari l'ambiene che lo circonda". C'è stato un uso improprio del territorio?"Direi di più. Ormai di esempi di questo genere nelle Dlomiti non si contano più. La mia valle è la val di Fassa e non esito ad affermare che questa valle è ormai un vero e proprio colabrodo dal punto di vista edilizio: le seconde e le terze case non si contano più. C'è addirittura chi si vanta di aver costruito e poi venduto più di cinquecento appartamenti. Per me queste persone, contrariamente a quanto pensa la maggior parte della gente hanno arrecato un danno terrificante soprattutto alle nostre future generazioni. Noi dolomitici, tradendo di fatto quell'immenso sentimento che i nostri avi dichiaravano tutto quello che li circondava, non abbiamo venduto, ma svenduto e molti ormai si ritrovano con un pugno di mosche in mano. In questa epoca moderna è possibile vivere le Dolomiti assaporandone l'aroma più puro solo ad un prezzo, quello della misantropia o dell'emarginazione". Essere Patrimonio Unesco dovrebbe avere un significato profondo per la promozione culturale, materiale e ambientale. Cosa si aspetta sotto questi profili. Ritiene che saranno motori della promozione umana o solo economica?"Patrimonio Unesco. Vorrei dire 'si salvi chi può'. Infatti vorrei sapere perché il tutto si è trasformato in una disputa politica e in spartizioni di poltrone. Personalmente, fino ad adesso si è quasi solo parlato di dove organizzare gli uffici di competenza, di chi in questi uffici andrà a lavorare e di chi li dovrà dirigere. Naturalmente non si è parlato della cosa che sta più a cuore: gli stipendi. A me pare he si sia ormai orientati verso altre forme di sfruttamento del territorio in una quasi orgia collettiva con gli occhi semichiusi, dove le parole sono per lo più positive ma le intenzioni e soprattutto i pensieri potrebbero lasciare molto a desiderare, perché da quando mondo è mondo ognuno coltiva il proprio orto e invidia quello accanto. Quanto poi alla promozione umana ci andrei cauto. Basta pensare che tuttora i nostri giovani tribali da questo punto di vista lascian molto a desiderare. Di conseguenza spero che con le Dolomiti Patrimonio dell'Umanità si pensi molto a quei vuoti che quotidianamente accompagnano la gioventù dolomitica. La gestione del territorio, quello non interessato al turismo di massa, possiamo dire che va molto bene. Ci sono ancora degli spazi dove l'Unescoe le varie regole servono meno di niente. Chiedetelo a un camoscio. In sostanza qui il problema solo l'essere umano che ha bisogno di sempre più spazio. Per quanto riguarda poi l'aspetto economico basta venire sulle Dolomiti e guardare in basso da una quota di duemila metri per capire quanto, appunto, l'economia abbia di granlunga prevalso sul rispetto dell'ambiente". In conclusione, lei, da ladino, cosa direbbe a coloro che ora devono decidere sulla Fondazione Unesco per le Dolomiti e quindi sulla gestione del territorio dolomitico stesso?"Io, ladino di Fassa, che cosa posso dire? Dipende da quali persone decidono il nostro futuro: ma il nostro futuro di esseri umani o il nostro futuro perché abitanti di un certo luogo? Ho come la sensazione che in giro con la scusa delle Dolomiti patrimonio Unesco ci siano delle persone e non solo dei politici, convinte di stare al di sopradelle parti e di essere le uniche con un po' di cervello capaci di capire, come, dove e perché. In poche parole la solita speculazione dove noi semplici abitanti delle Dolomiti ci sentiamo messi da parte se non addirittura ci rendiamo conto di come si può servire a qualcuno per qualche voto. E poi nelle tache della gente non arriva nulla o quasi".


Fausto Pajar



ASSOCIAZIONE CULTURALE “ANTONIO ROSMINI”
Via Dordi n. 8 - TRENTO - Tel. e Fax 0461.239994 - E-mail: info@assrosmini.191.it www.associazrosminitrento.it


Venerdì - 20 novembre 2009 - ore 17.00

Fausto Pajar
SANTI MONTANARI
Edizioni Biblioteca dell’Immagine – Pordenone



Converseranno con l’Autore:
Nadia Scappini
Emanuela Merlo

Tratto da TasteVin Agosto/Settembre 2009



1974, ANNO MAGNIFICO E TERRIBILE

di Fausto Pajar

Trentacinque anni dopo celebriamo un sogno realizzato, un sogno realizzato, ma non esaurito: per questo si va avanti con decisione. Ci volgiamo indietro per riconoscere nella memoria e nei fatti il cammino compiuto. Non da soli. Indietro, come in uno specchio magico che riflette il presente, si vedono ancora distintamente i volti di tanti cari colleghi, di appassionati, di vignaioli, di mercanti, di degustatori, insomma tutta un’umanità variegata che ci resta nel cuore, che ancora ci alita un soffio di vita dal mondo nel quale si sono rifugiati per continuare a guidarci. Le presenze antiche non affascinano solo coloro che credono nella continuità del rapporto che consente colloqui tra le anime perdute nel cielo e quelle perdute sulla terra. Un cammino comune nel presente dello spirito, io credo. Di sicuro, un cammino è stato comune, in passato, a Bepo Maffioli e ad Annibale Toffolo. Il primo già maturo cultore di culture venete che spaziava dalla gastronomia al teatro e primo direttore. Il secondo, direttore attuale di questa rivista, giovane rampante pieno di voglia di fare, aperto al mondo con la volontà di portare ad esso il suo contributo di entusiasmo e di idee innovative.

Queste pagine mille volte sfogliate, quelle idee rimbalzate da tavolo all’altro, da un telefono (raro, in quei tempi) all’altro. Quante voci si accalcano alle orecchie che ormai non le odono più e seppur non le odono tuttavia le sentono perché sentire è dell’anima non del padiglione auricolare e dei connessi. Udivamo, allora le voci di Maffioli e di Vicentini e di tanti dell’Accademia della Cucina, di trattori, ristoratori e osti, che oggi non ci sono più qui ora, ma che ci sono nel nostro modo di essere, che volteggiano nell’aria attorno a noi come fedeli custodi di un messaggio che speriamo di aver recepito. Di certo qualcosa abbiamo capito, perché qualcosa è cambiato. Ma noi siamo certi che anche chi se n’è andato non ci ha abbandonati. A volte pare di sentire –capita anche a voi? – nel gorgoglio di un bollire di botte immostata dalle fragranze della recente vendemmia spremuta, capita, dicevo, di sentire la voce chiarissima e vicinissima di chi ha amato la terra, questa nostra terra, di contadini autentici, perennemente inchiavardati alle doghe curve della botte che lascia respirare il vino come un polmone. E dentro c’è questo suono di voci e le voci sono memorie e le memorie sono nuove uve e nuovo vino e spirito e anima e tutto. E poi, guardando fuori, alle vigne sterminate che invadono i colli magici trevigiani nel magico raggio verde che chiude il tramonto e nessuno, che non sia puro di cuore, può vedere, si scorgono figure chine sulla zolla, schiene spezzate e ripiegate quasi dentro la terra come a carpirne i segreti e nasconderli all’infido crescere di malanni fogliari, di dolori ai tralci, di bolle e macchie, di rughe non dovute e non volute. Così sulla vigna come sul corpo. Screpolato il tronco della vite che si squama a poco a poco sotto il peso del tempo, screpolati il volto e le mani dei padri nostri con rughe sì fonde da potervi coltivare filari ricurvi di cartizze come sulle colline di Valdobbiadene o di Conegliano.

Mi ricordo quella volta, quanti anni fa?, che un vigniaiuolo (ero con il saggio collega e gastronomo Carlo Mocci, a Guia) si presentava dicendo “guardate queste mani” e noi guardavamo in silenzio, religiosamente, quanto aratro e quanto verderame stavano racchiusi li dentro, mentre, attorno i grilli tenevano un concerto per noi come una sublime sinfonia di pizzicato di violini stradivari in puro abete armonico di Fiemme. Guardavamo in silenzio (erano tanti anni fa, 35), guardavamo ed eravamo stupiti di non vedere, in quelle mani, i segni dei chiodi della crocefissione. Ma poi si capiva, quando stappava una bottiglia di Prosecco. Quel vino cantava le lodi del Signore. E il signore risorto era lui e nel suo vino limpido si specchiava tutta l’anima della sua fatica. Anche i segni dalle mani scomparivano e il volto si rasserenava come se il risultato del suo lavoro gli rendesse la gioia infinita e destinata solo ai santi, la gioia dicevo, di un corpo glorioso, rinato, anzi risorto.

Quel contadino ha avuto in dono il mondo. Lo ha avuto fisicamente, materialmente, nelle mani. Lo ha palpato come quando andava a morose per scoprire il mondo della carne. Ma non c’era differenza. Anche lì c’era da arare e vangare, perché dovunque la vera vita nasce dal sudore e solo dopo dà piacere infinito e produce frutti. Frutti a grappoli, dorati e rubizzi come cascate di Prosecco o di Refosco, di incrocio Manzoni o di Pinot.

In fin dei conti cosa sono 35 anni. Tanto? Poco? Non si pesano con la stadera le scelte della vita. Non c’è mai stato nulla da vendere o da comprare nelle pagine di una rivista che sfogliata periodicamente portava e porta il peso della terra pensata, della fatica, dei luoghi del vivere nostro e del nostro tempo.

Scriveva Toffolo ricordando Maffioli e spiegando a larghe intense pennellate come nasceva questa rivista: “Era una rigogliosa giornata d’autunno, quando Lo incontrai nella sua casa di mattoni e pietre, che ricorda la barchessa di un contadino con un vigneto tutt’intorno, all’ombra dei più vecchi parchi del Terraglio…”. Comincia così l’avventura di questa rivista.

Dentro c’è tutta la storia di questi 35 anni. Forse non ricordiamo più, ma è bene farne memoria. Era il 1974. Ma era anche il 2727 ab Urbe condita, il 1422 per il calendario armeno, il 7482 per il calendario bizantino, il 4670 (cinese), 1393 (islamico). Tanti modi per dire che quella fu un annata buona. Ma non un buon anno, tranne per il fatto che ha visto la nascita di questa rivista (allora “Vin Veneto).

Che cosa accadeva, allora?

Carlos Arios Navarro diventava capo del governo spagnolo, il quarto governo Rumor andava in crisi, la Spagna usava per l’ultima volta la garrota, Iva Zanicchi vinceva il Festival di Sanremo, nasceva il quinto governo Rumor, le Br rapivano il magistrato Mario Sossi, in Portogallo la rivoluzione dei garofani poneva fine alla dittatura iniziata da Salazar e gestita da Marcelo Caetano, la Lazio vinceva il primo scudetto, gli italiani dicevano no all’abrogazione della legge sul divorzio, in piazza della Loggia a Brescia una bomba rivendicata da Ordine Nuovo provocava 8 morti e molte decine di feriti, Gianni Agnelli veniva eletto presidente di Confindustria, veniva costituita la Consob, a Padova un commando br uccideva due attivisti del Movimento sociale italiano, a Milano Indro Montanelli fondava Il giornale nuovo, Rizzoli comprava le quote del Corriere della Sera da Crespi, Moratti e Agnelli, la Turchia occupava il Nord di Cipro, ad Atene cadeva la dittatura dei colonnelli al potere dal 1967, a San Benedetto val di Sembro avveniva la strage sul treno Italicus, in Usa Nixon era costretto a dimettersi dopo lo scandalo del Watergate, a Pinerolo venivano arrestati i capi br Renato Curcio e Alberto Franceschini, a Milano iniziavano via cavo le trasmissioni di Telemilano di Silvio Berlusconi, a Torino 65mila operai venivano messi in cassa integrazione, la magistratura di Milano spiccava ordine di cattura contro il banchiere Michele Sindona e quella di Padova un mandato di cattura per il generale Vito Miceli ex capo del Sid (servizi segreti), in Etiopia venivano scoperti i resti fossili di “Lucy”, progenitrice dell’uomo e Malta diventava repubblica. Ma l’elenco non è esauriente, cioè non finirebbe qui, anche se qui lo faccio finire io.

Ricordate?

Resta da dire, brevemente, solo per memoria, com’era Treviso in quello scorcio dell’anno cbe andava concludendosi. Cosa accadeva? Il cronista lamentava in un fondo sull’apertura di pagina dell’edizione di Treviso del Gazzettino, che la regione si fosse dimenticata dell’idrovia del Sile . E annunciava anche che aumentavano le tariffe del trasporto urbano che però (per addolcire la pilolla amara) era previsto, in compenso, l’arrivo di 40 nuovi autobus Fiat 418 Ac carrozzati dalle Officine Pistoiesi (gruppo Breda), mentre a Oderzo venivano denunciate quattro donne per un furto di cavoli. Era la clamorosa notizia di “nera” del giorno. Infatti il cronista titolava a due colonne: “Trecento cavoli rubati nell’orto delle Opere Pie”. Contemporaneamente sotto la Loggia si svolgeva la Mostra del radicchio. I produttori premiati quell’anno erano Giorgio Favaro e Silvano Vettor di Zero Branco, Ferdinando Sartorato di Dosson, Salvatore Menegatti di Preganziol e Sante Milan per il tardivo. Antonio ed Ermenegildo Zugno di Scorzè e Giovanni Franchin di Zero per il precoce; Augusto Mazzocca di Castelfranco, Vittorio Ballan di Treviso e Antonio Zugno di Scorzè per il variegato. Alla premiazione c’erano il prefetto De Cunzo, il consigliere regionale Nervo, l’assessore provinciale Gazzola, il questore Fortunato, il presidente degli allevatori Bellotto, il direttore del consorzio agrario Zago, il veterinario provinciale Lucernoni, il direttore della Coldiretti Scardellato, il presidente della Camera di commercio Curci, il capo dell’Ispettorato agrario Scudeller. Il preciso e puntuale resoconto del cronista di allora metteva in risalto: “Il Consorzio attua una politica di intervento sul mercato per garantire ai produttori un prezzo equo e remunerativo. L’integrazione dei prezzi per dicembre-gennaio è prevista intorno alle 500 lire al chilogrammo”.

In dicembre, alla Fiera di Santa Lucia di Piave partecipano 450 espositori in rappresenta di 550 ditte diverse italiane, tedesche, inglesi e francesi. La Fiera viene inaugurata dal presidente del consiglio regionale prof. Giancarlo Gambero con il sindaco di Santa Lucia, Ermanno Speranza, presente anche il consigliere regionale Ulliana. Nello stesso periodo sono 170 gli artisti che partecipano al concorso “Tavolozza trevigiana”, giunto alla sua terza edizione per proporre opere ad olio formato 18x24 a tema libero ospitate ed esposte alla galleria d’arte Giraldo, dopo il giudizio espresso dalla giuria formata dai professori Armando Tonello, Girolamo De Stafani e Mario Massarin. La televisione offriva poco rispetto ad oggi. Erano accessibili il Primo canale, il Secondo e Capodistria. La programmazione aveva inizio alle 12,30 con la rubrica “Sapere” e chiudeva alle 22,45 con Tg e Che tempo fa, cioè il meteo. Il Secondo canale apriva le trasmissioni alle 18 con un programma divulgativo di educazione permanente e chiudeva con il programma delle 22, in questo caso (lunedì 16 dicembre 1974) con un concerto de “I solisti veneti”. Capodistria apriva alle 19,55 con L’angolino dei ragazzi e iniziava l’ultimo programma alle 22,30 con la seconda parte dello spettacolo folk “I Cosacchi del Don”. Maggiore offerta veniva dal cinema. All’Astra davano “La leggenda dell’arciere di fuoco”. Al Corso, “Robin Hood” (cartone animato). All’Edera, “La vera storia del dottor Jekill, vietato ai minori dei 14 anni, ultimo spettacolo alle 22,15. All’Edison, “Travolti da un insolito destino nell’ azzurro mare di agosto; allEmbassy, “Finché c’è guerra c’è speranza”; al Garibaldi, “Porgi laltra guancia con Terence Hill e Bud Spencer, all’Hesperia, “C’eravamo tanto amati” e all’Arcobaleno “La meravigliosa storia di Carlotta e del porcellino Wilbur”. La notte del 31 dicembre veglionissimo al “New Time” di Treviso con Renzo, premi e cotillons a un prezzo di tremila lire.

In quello stesso periodo invernale entrava nel vivo il Concorso gastronomico promosso dalla Pro Loco di Villorba. La quarta serata l’appuntamento è “da Nerino” a Fontane-Chiesa vecchia. Menù della serata: pappardelle con lepre, “polenta e osei”, funghi di bosco, formaggio con polenta “brustolada”. “Il primo piatto scrive il cronista – è reso più appetibile da un frizzante Cartizze, che sostituisce più che egregiamente l’aperitivo. Tre sommelier in pompa magna non hanno fatto piangere i bicchieri. Con il primo si degusta un robusto Refosco, mentre con la “polenta e osei” si passa al Merlot…Infine, il formaggio con il clinto, un vino che, qusi incontrastato dominatore delle cantine qualche decennio fa, ha conosciuto un rapido calo per tornare a fare capolino in questi ultimi tempi senza demeritare, accanto ai più noti e celebri fratelli come i bianchi di Valdobbiadene. E’ ovvio _osservava ancora il cronista- che ad ogni piatto bisogna accostare il vino che ne valorizzi il sapore e lo renda unico. Perché, a prescindere dai gusti, un piatto quando è fatto bene è sempre un buon piatto; la sapienza e l’arte 8non abbiamo detto abilità, perché è qualche cosa di più) consistono nel saper armonizzare tutti i particolari. Una trattoria alla casalinga presenta, come ha fatto Nerino, il suo pan de casata; rifiuta il dolce per non deviare da una linea impostata sulla polenta, altro alimento che un tempo era unico e che ora sta diventando una leccornia. Ovvio che il bicchiere della staffa, dopo tanta specialità veramente veneta, non poteva essere che la grappa. Una serata gustosa che ha toccato il punto focale del concorso, presentare e valorizzare piatti ormai adusati, conosciutissimi, che abbiamo mangiato in altri tempi, con più frequenza (e forse con maggior “fame”) e che la tradizione veneta non deve lasciar cadere. Per questo un concorso, e speriamo che anche altre Pro loco abbiano già preso esempio da Villorba, deve presentare la cucina veneta”. Per la cronaca, il vincitore della rassegna sarà proprio Nerino.

E’ bello ricordare quegli anni della giovinezza, gli slanci, i timori, la gioia. Una vita è passata, tante vite sono tramontate, ma nella galleria dei ricordi restano tutti i volti. Questo mio è il tentativo di far ricordare cose e persone, e di ricordare anche che la rivista ha sempre mantenuto una dirittura invidiabile e un’equidistanza tra eventi e passione e su questa linea procede anche oggi, perché, per dirla con Orwell: “In tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”.

Università degli studi di Verona presenta:

IO SCRIVO, TU MI LEGGI
incontro con l'autore


presso Biblioteca Arturo Frinzi
via San Francesco, 20 Verona;
tel. 045 802 8600

Mercoledì 9 Dicembre ore 17,30 l'autore Fausto Pajar presenterà il suo "Santi Montanari"


Clicca qui per il programma completo

Da sempre custodi delle Dolomiti




Tratto da "Corriere della sera" di martedì 29 Settembre 2009
di Fausto Pajar

A causa dei troppi interventi esterni, le Dolomiti dell'Unesco mondiale rischiano di dividere l'umanità locale che ne ha sempre tutelato il destino e le ha sempre promosse. Un destino, proprio un destino. Le cime dei monti hanno sempre separato. Lo spartiacque di frontiera cammina sulle vette più vicine al cielo e grondano sangue di guerra, riempiendo fiumi come il Piave o l'Isonzo. Storie vecchie che sbucano nelle pieghe di una memoria non sconosciuta, ma spesso ignorata.
Il Piccolo Lagazuoi non era mica come lo vediamo oggi: è stato fatto a pezzi dalle mine scavate in gallerie, dove, uno sopra l'altro, fantaccini austro-ungarici o italiani, diventati minatori del nulla per ordine superiore, picconavano rocce milionarie d'anni e piene di fossili testimoni di un mondo che c'era quando noi eravamo ancora nel pensiero di Dio. Fosse stato per la gente che ci abitava, il Piccolo Lagazuoi lo vedremmo ancora com'era, salvo qualche variante dovuta alle trasformazioni naturali imposte dall'azione inesorabile del tempo. La Marmolada ha scuscitato, per mezzo secolo, tonnellate di carte bollate in liti, solo per garantire trenta denari o poco più di impianti di risalita in cambio di stravolgimenti ambientali spacciati per progresso e ricchezza.
Progresso di chi? Ricchezza di chi?
Le montagne tutte, le Alpi tutte - e le Dolomiti in particolare - sono ricche per conto loro. I montanari (noi montanari), di qui e dovunque, ci sono sempre statii e ci saranno ancora, anche se si è fatto di tutto per costringerli a mollare a costringerli all'abbandono. Ma quando poi ci si è accorti che le bistecche non sapevano più di carne e il formaggio non sapeva più di latte e l'acqua non sapeva più di fresco e di pulito, l'altro mondo che guardava avanti con orgogliosa sicurezza verso il sol dell'avvenire e alle palanche e alla grana, ha guardato in su ed ha visto gente curva sulla poca terra dei monti, con le schiene spezzate dalla fatica. Ha guardato ed ha visto gente che tentava di rubare all'asfalto e al cemento che progredivano sui declivi fioriti di arnica salutare e di genziana benefattrice, che progredivano dicevo, tra le file dei faglioli come la gramigna, la maledattea gramigna che non si estirpa mai. Volevano bensì il progresso e la modernità, ma come la volevano loro non come la imponevano gli altri votati a una omologazione devastante e contraria ad ogni principio identitario. Le montagne sono un confine, devono essere un confine (almeno per arginare costoro), devono essere un limite fisico e logico alla corsa pazza di vite in fuga perenne da se stesse.Sull'asfalto non crescono fagioli. I fagioli per crescere hanno bisogno di terra, tempo e tenacia, soprattutto quella del contadino. E in montagna la terra è in salita, in tutti i sensi; e la salita è faticosa, chiede ritmi lenti, calibrati, dosati, pensati.
Ci sono tante cose che possono venire in mente in questo momento. La montagna è sempre il luogo più vicino al cielo. I boschi suonano e cantano. Sono flauti leggeri, ma anche cupe tonalità di tromboni e di percussioni violente e sconcertanti. Tra le Dolomiti, ad esempio, c'è un bosco, unico al mondo, dove un abete su quattromila può diventare una tavola armonica, cioè un legno che suona, che ha fatto impazzire e fa impazzire chi ascoltava e ascolta ancora oggi i violini di Stradivari, o i lunghi pianoforti a coda spaparanzati sulla scena fantasmagorica della Scala a Milano.
Oggi tuti attorno alle Dolomiti. Ottima cosa. Per fortuna sono di pietra. Una pietra molto friabile, ma non commestibile, almeno così spero. Anche se si potrebbe intuire di vedere già un banchetto predisposto a "far fuori" i Ladins che sono stati e sono ancora oggi nelle valli di Fascia, Ampezo, Badia, Gardeina e Fodom gli unici titolati a decidere sulle Dolomiti della Ladinia, come i Furlani di quelle della Piccola Patria. Mi resta solo un quesito. Posso pensare quali saranno i discorsi variegati degli uomini, ma mi chiedo che cosa si diranno ora le Dolomiti guardandosi nel tramonto dell'enrosadira che infiamma Catinaccio, Sciliar, Odle, Pale e tutte le Dolomiti dal Brenta al Friuli.
Spero solo di vedere, tra qualche mese, o prima, un solitario alpinista salire la cina del Campanile di Val Montanaia con una campana e che la suoi a festa per sottolineare che le Dolomiti sono sempre state e continueranno ad essere dell'Umanità tutta, perché saranno stati i montanari a decidere come continuare a mantenere aperta al mondo la loro casa, cioè le montagne più belle del pianeta.