Un caffè a San Marco con Fausto Pajar

Tratto da "Il Gazzettino Illustrato" di Agosto 2008
di Bruno Tagliapietra




C'è un "fil rouge" nella vita di Fausto Pajar, giornalista e scrittore ma ancor prima, nell'intimo, montanaro "nordestino": l'amore profondo per la natura e gli animali ma sempre in rapporto all'uomo. Specialmente verso quei personaggi che davanti a un magico paesaggio montano, oppure a una semplice felce non si limitano a guardare ma, proprio come fa lui, vedono, osservano, capiscono e sanno cogliere i messaggi profondi che flora e fauna ci trasmettono. "Sono - come lui ci dice - quei valori che i nostri avi hanno visto, amato e curato, lasciandoceli in eredità e che noi, a nostra volta, trasmettiamo alle generazioni future. Per questo scrivo i miei libri, per affermare che dobbiamo essere custodi appassionati della natura. Altrimenti non riusciremo a capire dove stiamo andando e non scopriremo il segreto della felicità". Pajar, giornalista professionista dalla fine degli anni Sessanta, sposato con due figli, vive per motivi strategici in quel di Quinto di Treviso in quanto lavora a Mestre nella sede centrale de "Il Gazzettino". Ma il suo dna proviene e non si scosta dalle montagne bellunesi dove è nato, nonché da quelle trentine e dell'Alto Adige dove il padre ha operato quale comandante delle varie sedi dei carabinieri dove veniva assegnato. Anche lui montanaro, originario della Val di Non, nato nel 1909, quando il territorio era sotto l'impero Austroungarico e quindi uso al tedesco e per questo utilizzato dal comando dell'Arma nelle aree calde del Tirolo in anni non certo facili.
T a n t i ricordi di quei tempi: belli o brutti?
Ripensandoci ora, alle soglie dei 60 anni, farei un bilancio decisamente positivo. Anche perché ciò che riesco a dare agli altri con il mio lavoro e i miei scritti lo devo alla formazione che ho ricevuto nei paesi di montagna dove ho mosso i primi passi. Come Longarone dove sono nato e dove ho il triste ricordo della morte tragica del mio padrino, il farmacista scomparso nell'immane sciagura del Vajont. Oppure Salorno dove d'estate appena dodicenne ho scritto e stampato in parrocchia con il ciclostile la mia prima fatica giornalistica: il “Gajer Express”. Poi gli anni delle scuole elementari nella provincia di Bolzano. Proprio in questa zona ho vissuto episodi gravi come la morte di uno stradino, saltato in aria per aver strappato con l'erba una bomba dei terroristi, alla chiusa di Salorno. Anche mio padre rischiò prendendo in mano un bussolotto di polvere nera dal ciglio della strada statale per poi neutralizzarlo senza bloccare il traffico (a quei tempi non c'era l'Autobrennero) e senza attendere l'arrivo degli artificieri. Tutto per cercare di non mettere ulteriori esche a una tensione già alta.
E la natura, legata alle montagne, cui si rifanno diversi degli otto tuoi libri finora pubblicati?
Quella e il suo rapporto con gli animali provengono da mio padre. Dalle lunghe camminate per i boschi. Lui aveva il bisogno di avere un fucile per sparare di tanto in tanto e giustificare ai suoi occhi quelle
faticose e lunghe passeggiate. A me serviva come maestro per capire i boschi e i suoi abitanti.
Ma gli studi superiori e l'università non erano possibili in montagna?
Questa è stata l'altra grande occasione della mia vita: gli anni delle medie trascorsi in
collegio dai salesiani a Rovereto. Qui ho imparato che lo studio è una cosa altrettanto seria e impegnativa del lavoro. Ho appreso che la cultura e il sapere sono il sale della vita e che il messaggio cristiano serve a capire il
significato profondo del nostro cammino nel mondo.
Ma l'approccio al giornalismo, dopo l'esperienza da ragazzo a quando risale?
Non ero ancora maggiorenne e già
facevo il corrispondente da Salorno per l'Alto Adige e da figlio del comandante dei carabinieri non mi mancavano gli scoop. Poi da buon trentino ho trascorso qualche estate in Germania a vendere gelati, come tanti giovani per mantenersi agli studi. Fino alla grande occasione, sul finire degli anni Sessanta, quando “Il Giorno” di Milano decise di aprire una redazione a Bolzano che vide l'uscita di parecchi giornalisti dall'Alto Adige e la proposta fattami dall'allora direttore Cavazzani di fare il praticantato alla redazione bolzanina prima, e a quella trentina poi, per diventare professionista. Qui ho vissuto le prime grandi esperienze. Da Trento, non dimentichiamo, uscirono Curcio & C. che governavano il movimento studentesco e la lotta operaia.
Altri ricordi di questa professione tanto strana quanto complessa?
A parte il privilegio mio di "appartenere" ai Cc quando si fa cronaca nera ci vuole anche fortuna. Ricordo la morte per arma da fuoco di un uomo in un maso a Solaiolo di Carano nel Trentino. Quando la notizia venne data alle redazioni tutti i cronisti delle tre testate della città e delle agenzie di stampa partirono in quarta. La mia macchina fece i capricci e io arrivai tardi. Incrociai i colleghi che stavano tornando indietro delusi: gli investigatori avevano detto trattarsi di suicidio. Un uomo si era sparato un colpo di pistola al petto. Ma la mia coscienza mi diceva che dovevo poter dimostrare che anch'io c'ero stato. Quando arrivai vidi il medico legale passare un'asta nel petto del cadavere per vedere dove finiva il foro d'uscita e nel girare il corpo si accorse che i buchi sulla schiena erano due. Alzato un braccio venne alla luce il secondo foro. Dunque era chiaramente un delitto e non suicidio. Il mio giornale fu l'unico a dare questa notizia, da prima pagina per un quotidiano locale.
Quando è avvenuto il salto dai media alla letteratura?
L'occasione risale a un'altra grande tragedia che ho vissuto in prima persona, questa volta come giornalista de "Il Gazzettino" dove ero approdato, ancora praticante, chiamato dall’indimenticabile collega Cesare Piazzetta: il terremoto che sconvolse il Friuli nel 1976. Ho vissuto i momenti dolori e coraggiosi di quelle genti di montagna e degli alpini che in pochi anni cancellarono le profonde ferite dello sisma. Ho fatto il mio primo libro fotografico sul Friuli seguito da un secondo ("C'era una volta il Friuli") sui disagi dei sopravvissuti. Una volta rotto il ghiaccio ci avevo preso gusto. Soprattutto avevo capito quanto rispetto era dovuto alla natura, al fragile rapporto tra l'uomo e il suo habitat e che chi sbagliava eravamo soprattutto noi. Da qui un nuovo modo di guardare all'Heimat, alla patria, come dicono i tedeschi. A quella cultura fatta di racconti a voce, a quell'anima che si illumina alle fiamme di un focolare. Così si sono susseguiti "Serenissimo Alfabeto" su vicende e storie tramadate delle Tre Venezie; "Bengodi della Marca gioiosa" sulla gastronomia trevigiana; "La valle degli Uri", sui mitici e mastodontici buoi dei quali parla anche Giulio Cesare nel “De Bellum Gallico”, sopravvissuti fino al XVII secolo nelle pianure polacche; "Aquile, falchi, orsi e camosci a Nordest e dintorni", serie di racconti sui rapporti tra l'uomo e gli animali. Penultimo, il libro di foto "Romantica Treviso" con le impareggiabili immagini scattate dal fotografo Attilio Moretto per i tipi di Europrint Edizioni di Quinto.
Ultima fatica, appena uscita per Edizioni Biblioteca dell'Immagine di Pordenone, il libro "Santi Montanari". Un omaggio alle figure straordinarie di virtù, amate e venerate dalle genti alpine?
Sì, la valorizzazione di un messaggio che diversi santi hanno dato con la loro vita e i segni che hanno lasciato oggi, anche a distanza di millenni, sulle tradizioni e il sentire delle genti della montagna. Anche questa volta la spinta e il sostegno sono venuti da mia moglie che mi ha aiutato nelle ricerche. Le curiosità sono tante ma l'afflato è ricorrente: non si diventa uomini giusti se non sappiamo inserirci in una natura che Dio ha creato con l'uomo e per l'uomo perchè solo così si dà un senso alla vita. Un libro che ci permette di entrare in un mondo poetico e a volte sentimentale visto sempre con l'occhio del giornalista cui non sfugge il piccolo particolare, quel gesto, quell'aspetto umano che tanto calore dà a chi si lascia avvolgere da un mondo di valori sempreverdi. Così scopriremo il segno di Simone apostolo arrivato fin a Sachet di Valle Agordina in quella terra che ha dato i natali a Papa Luciani; oppure sant'Orso le cui tragiche vicende sono rivissute ancor oggi in Val d'Aosta. Ancora, santa Notburga di Eben la prima "sindacalista" dei contadini schiavizzati nel lavoro del campi nel Medioevo. E via via, san Martino di Tours che con il suo mantello ha influenzato l'economia della Marca facendo sorgere la Converga del Tabarro, che ha riportato in auge il classico, antico mantello veneto originale. In tutto quasi 30 figure importanti non solo per la Chiesa ma anche per aver guidato per secoli la vita reale di milioni e milioni di montanari che ci hanno preservato questo mondo fantastico di vallate e di monti delle Alpi. "Ovviamente - ci confida alla fine Fausto Pajar - ora non posso non passare al nono libro, dedicato questa volta ai "Santi marinari".

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