Quarant'anni de “El Sil”, il periodico del Circolo Amissi de la poesia di Treviso










Tratto da il Corriere del Veneto del 13 luglio 2011

Nel luglio di 40 anni fa, era il 1971, usciva il primo numero della rivista mensile intitolata “Notissiario dei Amissi de la poesia de la Marca- Treviso” che poi prenderà il nome de “El Sil”, e che continua tuttora le sue pubblicazioni facendo conoscere l'attività del circolo e la produzione di 140 poeti iscritti, dei 221 che costituiscono la totalità dei poeti dall'origine ad oggi. Formato A4, carta patinata, diffuso in mille copie di cui 400 per abbonamento e 600 indirizzate alle biblioteche e agli organi istituzionali, è oggi diretto da Adriano Gionco, 77 anni, che è anche il presidente del Circolo, ed è curato dalla pittrice e poetessa Bruna Brazzalotto con il ruolo di direttore di redazione per coordinare i redattori Alberto Albanese jr., Pietro Bernardin, Giustina Menegazzi Barcati, Rygier Segna Silvestrini, Michele Tonus, Gianna Tenuta Pilon, Ferruccio Zanin, Maria Pia Pietrobon, Andrea Turcato, e il tesoriere Renzo Schiavinato.

Gionco è un personaggio ben noto del panorama industriale e culturale veneto per essere un imprenditore del settore legno, già sindaco di Spresiano, vicepresidente dell'Associazione industriali di Treviso e autore di quaranta libri tra poesie e racconti. I fondatori del periodico mensile dei poeti, che esce in quattro e talvolta sei pagine, sono stati gli indimenticabili Alberto Albanese e Andrea Cason che furono anche i primi due presidenti del Circolo che periodicamente organizza incontri culturali, letture poetiche e presentazione di libri.

La molteplice attività e la partecipazione (sempre più di sessanta persone presenti alle iniziative) tenderebbero a smentire le valutazioni correnti e le analisi che vorrebbero l'avvenuta morte della poesia in quanto tale, sopraffatta da meccanismi comunicazione di massa legata alla rete. Sta di fatto che gli incontri hanno notevole richiamo e particolare successo anche perché attorno alla rivista si raccolgono non solo i poeti trevigiani, che sono la maggioranza, ma vengono ospitati anche autori delle Tre Venezie nella rubrica intitolata appunto “Musa triveneta” e anche autori in lingua italiana.

Pur con queste eccezioni, la finalità specifica de “El Sil” resta quella originaria voluta da Andrea Cason: “Diffondere la poesia dialettale mantenendo vive le peculiarità del dialetto trevigiano, ma anche delle altre parlate venete, favorendone il capillare utilizzo nella vita quotidiana e nei testi scritti”. E infatti a questo progetto quarantennale hanno collaborato o collaborano personalità del calibro di Biagio Marin, Marcello Cocchetto, Italo Meneghetti (primo stampatore del mensile dei poeti), Bruno Marton (che è subentrato nella stampa), Dino De Poli (che ha dato sempre ospitalità al Circolo) e poi Cafè Nero (alias Gino Tomaselli) Alberto Albanese jr., Bruna Brazzalotto, Emilio Gallina, Adriana Scarpa, Rina Dal Zilio, Aurora Fiorotto, Nico Della Colletta, Toni Basso, Luigi Tavi (Bl), Wanda Girardi Castellani (Vr), Luciano Bonvento (Ro), Chechi Zorzi (Ve), Gino Pastega (Ve), Giorgio Garatti (Tv), Emanuele Bellò (Tv), Simon Benetton (Tv), Lucio Favaron (Pd), Leandro Ferracin (Tv), Giacomo Dal Maistro (Pd), Renzo Ceccotti (Ud), Nico Bertoncello (Vi), Grazia Binelli (Tn), Maurizio Boscolo Menguolo (Ve), Giovanni Carretta (Pn), Wanda Casellato (Tv), Enzo Demattè (Tv), Gian Domenico Mazzoccato (Tv), Francesco Smeazzetto (Tv) e molti altri.

Le tematiche affrontate dai poeti sono quelle spesso intimiste e liriche, ma anche di impegno sociale e culturale e religioso. “Per il quarantennale – precisa il presidente Adriano Gionco – abbiamo indetto un concorso sul tema 'La poesia', tema di cui si parla tanto, tema che non vuole essere meramente celebrativo ma strumento di vita e di pensiero . La premiazione avverrà il 17 settembre prossimo nell'auditorium del complesso museale trevigiano di Santa Caterina in concomitanza con la mostra degli artisti dell'Accademia europea delle arti”.


Fausto Pajar









Segnalo a tutti Voi gli appuntamenti musicali del Festival Concertistico Regionale - IV Edizione

organizzato dalla Associazione SonoraMente, dal 25 luglio al 12 agosto 2011.

Vi invito cortesemente ad aprire gli allegati con i vari programmi.

Spero vogliate estendere l'invito ad amici e conoscenti.


DIES ACADEMICUS

di Fausto Pajar


Scambio di studenti e docenti con riconoscimento dei crediti formativi. Tra la Facoltà teologica del Triveneto e l'Università degli studi di Padova è stata firmata una storica convenzione durante il dies academicus della facoltà teologica, presso la sede di Padova. Il Patriarca, Angelo Scola, Gran cancelliere della Facoltà e il Magnifico rettore dell'Ateneo patavino professor Giuseppe Zaccaria hanno apposto le firme alla presenza di docenti e studenti. L'iniziativa ha ottenuto l'approvazione incondizionata del ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini che ha scritto: “La volontà di collaborare in progetti di formazione e di ricerca, dimostra la vitalità delle vostre Università e la sensibilità nel cogliere il desiderio sempre più manifesto, soprattutto tra i giovani, per la ricerca di una nuova unità del 'sapere'. Il mio apprezzamento si estende in modo particolare alla prima iniziativa frutto della Convenzione, il ciclo di conferenze di aggiornamento scientifico-culturale 'Se guardo il tuo cielo...- per un dialogo tra scienza e fede oggi' dedicato agli insegnanti di scienze e di religione delle scuole della Regione Veneto. Il successo dell'iniziativa dimostra da un lato l'attualità della tematica affrontata e dall'altro l'impegno e la volontà di aggiornamento degli insegnanti della scuola pubblica, con cui vivamente mi compiaccio”.

Analogo l'apprezzamento dal presidente del Pontificio Consiglio della cultura, cardinale Gianfranco Ravasi: “Guardo con particolare interesse la lodevole iniziativa che ha portato queste due istituzioni a formalizzare un accordo per realizzare attività accademiche e altri eventi aperti al pubblico che coinvolgerà docenti e studenti, aprendosi allo stesso tempo ad uno scambio e a un dialogo con l'esterno. In questo modo si ricostituisce idealmente della 'Universitas Studiorum' che è all'origine dell'idea stessa di università e la teologia viene reintegrata nell'alveo universitario da cui era stata allontanata. In effetti, l'università, pur nella necessaria specializzazione, deve puntare sempre a non perdere di vista l'orizzonte dell'unità dei saperi, in vista della formazione integrale dell'uomo. Vi è il rischio per tutti di perdersi nella marea di informazioni e di nozioni comunemente ricevute o di chiudersi in un ristretto ambito disciplinare che può diventare facilmente una nicchia dorata, ma angusta e isolata, , che rende impossibile comprendere non solo le discipline ma soprattutto le grandi domande dell'esistenza e, talvolta, persino l'altro nella sua identità e nella sua libertà concrete”. Ravasi ha concluso: “La fede,ricordava Giovanni Paolo II, nel suo vincolo con l'uomo, è creatrice di cultura, e sorgente di ispirazione e di creazione ad esprimere la fede in modo sublime, illuminando e rispecchiando il mistero ineffabile della fede nella sua bellezza e profondità infinita”. Dal canto suo, il Governatore del Veneto, Luca Zaia ha voluto sottolineare come la giornata sia “importante per i giovani studenti che decidono di intraprendere questo percorso di studi, in un territorio dove i valori cattolici sono fortemente radicati e fanno parte dell'identità dei veneti. E nello Statuto regionale che stiamo realizzando – ha aggiunto Zaia – ho voluto che ci fosse un preciso riferimento alle radici cristiane. La valorizzazione e la tutela della nostra matrice religiosa è un aspetto a cui tengo particolarmente, come testimonia il dialogo constante con il Patriarca Angelo Scola, che ho avuto l'onore di avere come ospite, pochi mesi fa, nella sede del parlamento regionale, ovvero a palazzo Ferro-Fini. Negli anni, inoltre, questa Regione ha sempre dimostrato la propria vicinanza e il proprio sostegno a questa Facoltà e alla Conferenza episcopale del Triveneto. Sul piano personale, i valori cristiani costituiscono per me un punto di riferimento nelle scelte di governo, ma soprattutto sono, da sempre, i principi guida della condotta nella mia vita privata”.

Il Preside della Facoltà teologica del Triveneto, professor don Andrea Toniolo, ha relazionato sulla vita Accademica evidenziando, in particolare, una costante crescita nelle iscrizioni ai corsi. “La teologia, che conosce in questo nostro territorio una tradizione secolare, sta assumento – da detto – una connotazione particolare, possiamo dire anche nuova. Innanzitutto non è più la teologia fatta dentro i Seminari e per il clero, ma una teologia, che è disponibile per tutti, grazie anche alla riforma degli Istituti superiori di Scienze Religiose (Issr). Dei 2482 iscritti (+93 rispetto al 2010) in questo anno accademico, quasi duemila sono laici. Le molte sollecitazioni che vengono esplicitamente alla Facoltà Teologica dal mondo della cultura, dell'Università, della pastorale, della scuola, dell'economia, della società, stanno delineando un volto di teologia che presenta due tratti: quello pratico, riferito all'esperienza, e quello scientifico, riferito alla vita universitaria. Si tratta in fondo dei due campi di significato che costituiscono la teologia, anche se spesso in tensione”.

Particolarmente rilevante l'intervento del Gran Cancelliere, il Patriarca Scola.

“Quaedam impressio divinae scientiae: nella sua geniale sintesi, la classica definizione di S. Tommaso d'Aquino, ci ricorda una caratteristica propria della teologia. La singolare modalità con cui il Signore ha voluto renderci, per grazia, in certo modo partecipi del Suo stesso conoscere, implica infatti che l'intelligenza della fede non sia un privilegio accordato a una cerchia ristretta di credenti, ma appartenga all'atto di fede in quanto tale. La testimonianza dei cristiani non può dunque mai fare a meno di mostrare al mondo intero 'le ragioni della propria speranza' (cfr 1Pt 3,15). Queste però possono da noi essere comunicate solo perché Dio ha fatto abitare in Gesù Cristo, il Verbo che per amore si è 'abbreviato', ogni pienezza (cfr Col 1,19). E lo Spirito di Verità -che è lo Spirito del Figlio di Dio incarnato- consente alla nostra natura finita l'accesso alla 'Teo-logica (cfr H.U. Von Balthasar, Teologica 3. Lo spirito della Verità). Il dono di questa vertiginosa connaturalità tra il nostro conoscere e il conoscere divino impone per altro di sgravare il cristianesimo da zavorre che ancora ne condizionano la credibilità. Penso innanzitutto all'indebito estrinsecismo tra fede e ragione e tra natura e grazia, sulla base del quale si finisce per ammettere una tanto infondata quanto pretestuosa esclusione della religione, e quindi della teologia, dal dibattito pubblico. Ma mi riferisco anche all'equivoco dualismo tra teologia e pastorale, quasi che la fede pensate e la fede vissuta potessero sussistere indipendente l'una dall'altra. A questo proposito intendo ribadire l'importanza del lavoro svolto da questa Facoltà che, impegna nell'approfondimento della teologia pratica, è chiamata a mostrare il nesso inscindibile tra la riflessione sistematica e critica della fede vissuta dalla comunità ecclesiale. Solo l'annuncio di tutti i misteri cristiani nelle loro implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche ci aiuterà a superare la dolorosa spaccatura tra fede e vita che già Paolo VI indicava come il tarlo dei cristiani contemporanei. E' quindi l'unità dell'esperienza cristiana adeguatamente intesa a garantire la fecondità della riflessione teologica. Ed è a partire da questa visione unitaria che la teologia può rivendicare il diritto di esprimersi nella pubblica piazza, interagendo ed entrando in dialogo, a pari titolo, con le altre discipline e gli altri saperi. Anche in questo ambito la Facoltà teologica del Triveneto ha fatto una scelta precisa scommettendo con forza oltre che sul classico percorso sistematico e su quello pedagogico su percorsi accademici specifici di carattere pastorale atti ad offrire una formazione capace di preparare a nuove professioni. La logica di tale scelta, assai ardua e per molti difficile da comprendere, mi pare più che mai evidente: la complessità delle questioni che gli uomini e le donne di oggi quotidianamente affrontano, e che si rivela con particolare concretezza in alcuni ambiti lavorativi -pensiamo per esempio ai radicali cambiamenti in corso in campo medico e sanitario, o a quei settori particolarmente toccati dalla crisi economica , o ancora alle persone impegnate nell'assistenza sociale o nella mediazione interculturale- può far emergere una domanda di senso cui la mera formazione professionale non è sempre in grado di rispondere. Da qui i 'curricula' che che già taluni Issr offrono nell'ambito della bioetica, dei beni culturali e artistici, delle scienze delle comunicazioni e della famiglia e oltre. In questo orizzonte la pretesa della teologia è radicale: non si tratta di contribuire soltanto alla formazione professionale della persona, bensì di partecipare alla sua educazione integrale (paideia) offrendole un criterio per pensare e interpretare la realtà “secondo il tutto”. Scriveva a tale proposito il cardinale Newman: “Ammettete un Dio e voi introducete tra gli argomenti della vostra conoscenza, un fatto che racchiude, che avvolge, e che assorbe ogni altro fatto concepibile. Come possiamo investigare ogni parte di qualunque ordine di conoscenza, e fare a meno di quella conoscenza che entra in ogni ordine?”


“Ma la rilevanza pubblica della fede non è solo un riconoscimento che i cristiano debbano attendersi dagli altri. E' una dimensione che essi stessi sono chiamati a realizzare mostrando le buone ragioni per cui la religione può effettivamente rappresentare, come ha dichiarato Benedetto XVI in occasione del suo recente viaggio nel Regno Unito, 'un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico della nazione'. E' un'esigenza intrinseca al fatto cristiano, che chiede per sua natura di essere comunicato secondo la logica della testimonianza. Essa è però tale solo se è conoscenza adeguata della realtà che tende, pertanto, a comunicare verità. Ogni altro sapere fiorisce sul terreno fertile di questo sapere testimoniale. Tra l'altro questa è un esigenza della nostra società plurale, la cui difficile armonia dipendera, a mio avviso, dalla disponibilità di tutti i soggetti coinvolti a raccontarsi e a lasciarsi raccontare pubblicamente in vista di un riconoscimento reciproco. Il compito della teologia si fa qui decisivo, perché è anche su questo terreno che potrà essere valutata la sua capacità di incidere effettivamente sulla vita delle nostre comunità cristiane e di intercettare il desiderio dei nostri fratelli uomini, i quali inesorabilmente cercano un senso cioè un significato e una direzione, per la propria vita”. Infine monsignor Peter Henrici, gesuita e già docente di filosofia alla Pontificia Università Gregoriana ha parlato della dimensione pubblica della fede sottolineando in particolare come la teologia può e deve dire una parola chiara su temi rilevanti come bioetica ed etica economica.

FINE

Comune di Rabbi
Associazione Culturale Don Sandro Svaizer

Incontro con l'autore

Fausto Pajar

presenterà il suo libro


SANTI MONTANARI


converseranno con l'autore

don Renato Pellegrini
Emanuela Merlo Bruni



San Bernardo di Rabbi
Sala Canonica - venerdì 5 agosto 2011 - ore 20.30

Addio a Toni Righetto "re" della cucina del Sile

Tratto da "Corriere del Veneto" di mercoledì 6 luglio 2011






di Fausto Pajar

QUINTO DI TREVISO — La Marca perde un’altra personalità storica dell’enogastronomia tipica. Alle 7,30 di ieri, all’ospedale di Treviso è morto Antonio (Toni) Righetto, classe 1930. Aveva gestito in qualità di titolare, per oltre 60 anni, la storica locanda omonima di Quinto di Treviso, attiva dal 1780. Era malato da tempo. Ad assisterlo, la moglie Elda Vendramin e i figli Luigino e Giovanni. Con Toni Righetto scompare una delle figure più caratteristiche e dinamiche del panorama enogastronomico, culturale e sportivo della Marca Trevigiana. Infatti, se nella locanda manifestava tutta la sua passione per la salvaguardia e la promozione della cucina del Sile, nella cultura sosteneva con mecenatismo artisti e scrittori e nello sport si era impegnato a tal punto da diventare, tra l’altro, motore della squadra di calcio di Quinto per approdare poi al ruolo di selezionatore per la Juventus e l’Inter, all’epoca di Italo Allodi. Più volte consigliere di amministrazione dell’allora Cassa rurale di Preganziol e Santa Cristina di Quinto (oggi Centromarca Banca) era stato nominato, insieme al figlio Giovanni, cavaliere al merito della Repubblica dall’attuale presidente, Napolitano. Toni Righetto era famoso per le sue anguille, le «bisate» , che i pescatori gli portavano in grandi quantità e che lui, con cura, sistemava in due capaci cassoni di ferro forati che immergeva nelle acque del Sile, antistanti la locanda, per depurarle e ottenere così carni deliziose e profumate che poi cucinava in vari modi. Tra le sue numerose specialità va ricordato il risotto con l’anguilla «uso scampi» , un leccornia divenuta famosa e più volte oggetto di premi di grande livello nazionale e internazionale, nonché di recensioni assai positive. I funerali avranno luogo venerdì alle 10 nella chiesa parrocchiale di San Giorgio a Quinto di Treviso.
Fausto Pajar

Le tartarughe killer

tratto da "Il corriere del Veneto" di mercoledì 23 Marzo 2011

Il custode delle tartarughe killer
«Sono le più feroci del pianeta»

Vedelago, il giardino degli animali esotici. Flavio Nicoletti, 45 anni: «Accolgo anche gli esemplari sequestrati dal Corpo forestale dello Stato»

Uno degli animali che Nicoletti ha raccolto (archivio)

Uno degli animali che Nicoletti ha raccolto (archivio)

VENEZIA — E’ il custode delle tartarughe abbandonate. Gliele portano da tutta Italia. Anche quelle esotiche sequestrate dal Corpo forestale dello Stato negli aeroporti o sulle navi. Il commercio clandestino alimenta un mercato milionario. Ma quando l’animale — venduto al privato —diventa adulto e quindi ingestibile, chi l’ha comprato senza conoscenze effettive se ne sbarazza abbandonandolo in una fontana dei giardini pubblici o in un fosso. Sono queste le tartarughe che finiscono nella custodia di Flavio Nicoletti, 45 anni, moglie e due figli, a Fossalunga di Vedelago, in provincia di Treviso. «Adesso in giardino ne ho 650, naturalmente sono in riposo, ma alcune hanno già messo fuori la testa dalle tane, il caldo aiuta», spiega Nicoletti, responsabile del settore stampa allo stabilimento Europoligrafico di Paese (Treviso), ma esperto di tartarughe e fondatore con Mauro Favrin e i veterinari Fabrizio Benini, Marta Avanzi e Alessandro Bellese dell’«Associazione animali esotici (AAE)», onlus riconosciuta, che ha oltre 400 soci ed è suddivisa in diverse sezioni dedicate anche a conigli, serpenti vari, cavie e pappagalli. «Qual è, a parte l’uomo, l’animale più feroce del pianeta?» La domanda di Nicoletti è spiazzante perché stravolge i ruoli: il mio di intervistatore e il suo di intervistato. Ma lui non concede spazio: «Molti diranno il leone, la tigre o il coccodrillo. Sbagliato: la tartaruga azzannatrice e poi ci metterei anche la tartaruga alligatore».

Cioè, la tartaruga, la paciosa tartaruga simbolo di longevità e di lentezza? «Sì, proprio. Ma quello che vale nell’immaginario favolistico non risponde sempre alla realtà della vita naturale, della natura in quanto tale». E così mi accompagna in un luogo appartato del giardino di casa sua. Apre il coperchio bucato di un vascone di cemento sprofondato nel terreno. Là sotto, nell’acqua, ci sono sei tartarughe enormi, agitano le mascelle rostrate spalancando voracissime fauci, capaci di esercitare una forza di 70 chili per centimetro quadrato, molto di più di un coccodrillo o un leone. «Qui dentro ci sono 8 azzannatrici e 2 alligatore. La più vecchia ha 30 anni e pesa già 60 chili. Sono animali interessanti ma non da tenere nell’acquario di casa. C’è chi le compra e poi, quando diventano troppo grandi e aggressive e quindi ingestibili, le abbandona. Una l’hanno trovata, anni fa, perfino nella tenuta di San Rossore, quella del presidente della Repubblica, dove ha divorato in un colpo solo la testa di un cavallo che ignaro brucava vicino a un corso d’acqua». Queste tartarughe aggressive sono tutelate da convenzioni internazionali (Washington e Berna) e rientrano nella classificazione degli animali pericolosi che per essere detenuti hanno bisogno di permessi speciali della Prefettura. E’ evidente che il loro habitat naturale non è in Europa, ma nelle Americhe.

E’ vero che, quando vengono catturate ed esportate clandestinamente, si adattano? «Gli abbandoni—conferma Nicoletti— ci sono sempre stati. C’erano meno chiamate di soccorso dieci anni fa. Oggi ci conoscono, ci sono più collegamenti, più sinergia e ci sono più interventi. Ci hanno convocato anche quando dovevano costruire l’Ikea a Padova. L’area era infestata dai conigli selvatici. Ne abbiamo catturati quasi 200, tutti vivi. Poi li abbiamo dati in affido ad allevatori di fiducia. Ma abbiamo catturato anche un’iguana di un metro e mezzo e tanti serpenti. Qui, nel mio centro di raccolta e custodia, ho avuto alcuni anni fa anche la visita dell’attuale governatore del Veneto Luca Zaia, che si è rivelato un appassionato di questo strano mondo esotico. Un mondo del quale spesso poco o nulla si sa. Eccezion fatta per gli addetti ai lavori».

Ci siamo persi la tartaruga alligatore? «No, è sempre nella fossa con le altre tartarughe-killer. L’alligatore ha sulla lingua un’antenna simile a quella della rana pescatrice, cioè la comune coda di rospo. Questa tartaruga, acquatica, spalanca le poderose fauci e lascia fluttuare l’antenna alla sommità della quale c’è un ingrossamento di colore rossastro che sembra un verme. In realtà è un’esca. Qualunque animale s’avvicini, allettato dal pensiero di un buon boccone, diventa un boccone lui stesso, un pasto o un antipasto della Macroclemis temminki. E’ questo il nome scientifico della alligatore».

Nel giardino sembrano esserci tracce di altre presenze. «Qui ci sono delle rarità assolute, ma anche delle curiosità».

Per esempio? «C’è una Amyda Cartilaginea, una tartaruga asiatica dal guscio molle, ma mi hanno portato anche un maialino vietnamita da compagnia, tartarughe dallo zoo di Bergamo, altre dal Centro Carapax della Toscana».

E, fresca fresca, arriva la segnalazione che ci sono due Moluri di quattro metri ciascuno da andare a prendere a Bologna. Moluri? «Pitoni asiatici, nome scientifico Python Molurus Bivittatus. Saranno ospitati a Bibione».

A parte i due «Bivittatus», tutte queste tartarughe mangeranno qualcosa? «Ci sono quelle che mangiano solo pesce, le vegetariane che vogliono solo verdura, quelle che mangiano esclusivamente frutta e quelle che azzannano ogni cosa si muova».

Una bella spesa al supermercato. «Non diciamolo, noi speriamo sempre in aiuti e oggettivamente li abbiamo anche. Se questo è il pianeta vivente perché non nutrire tutte le sue creature? E’ l’unico luogo che abbiamo, dobbiamo custodirlo totalmente finché possiamo. Tartarughe azzannatrici comprese».

Fausto Pajar
23 marzo 2011

Un veneto coordina gli aiuti al Pakistan "Dramma dimenticato"

Tratto da "Il corriere della sera" di Domenica 10 Ottobre 2010



















di Fausto Pajar

E' veneto l'uomo che coordina gran parte degli aiuti italiani al Pakistan devastato dalle alluvioni provocate dalle piogge monsoniche di agosto. Quelle alluvioni che il primo ministro Yousuf Raza Gilani, andando in tv, ha detto che hanno colpito venti milioni di suoi connazionali, quasi il 12% dei 170 milioni di cittadini dell'intero Stato asiatico, tentando con le cifre di richiamare l'attenzione del mondo su una tragedia di dimensioni bibliche che, diversamente dallo tsunami del 2005 e dal devastante terremoto di Haiti del gennaio scorso, non ha fatto breccia - come doveva - nell'immaginario delle nazioni ricche dell'Occidente. L'uomo veneto dei soccorsi, che questa situazione l'ha verificata personalmente e la conferma, è Marco Rotelli, classe 1974, nato a Schio (Vicenza), laurea in scienze politiche e realazioni internazionali in Italia a Francia, vocato alla cooperazione internazionale e all'aiuto umanitario, direttore generale di Intersos Ong, con esperienze in Africa e Asia in situazioni di crisi e aree di conflitto. In sostanza una giovane vita tutta spesa tra guerre e disastri per portare aiuto, per mediare nelle relazioni tra civili e militari, per integrare programmi umanitari di emergenza con quelli di postemergenza e sviluppo. A lui, al rientro momentaneo dal Pakistan chiediamo di precisare la situazione.
"Il Pakistan - afferma Rotelli - oggi è un Paese in ginocchio. I monsoni hanno scaricato enormi quantità d'acqua che ha travolto e allagato un'area più vasta dell'intera Italia e coinvolto 20 milioni di persone lungo il suo correre dai monti del Karakorum e Indu Kush e il mar Arabico. Circa il 70% delle riserve agricole del Paese sono andate distrutte. Gran parte del bestiame d'allevamento è morto annegando nelle acque e nel fango o a causa della quasi totale assenza di cibo. Lo strato fertile è stato dilavato da moltissimi campi in una zona a grande vocazione agricola. Si tratta di un'emergenza che dura da oltre un mese e che sta mettendo a dura prova la resistenza delle persone e del sistema dell'aiuto, nazionale e internazionale, che tra l'altro ha ricevuto solo la metà dei fondi necessari a far fronte ai gravissimi problemi in termini di salute,agricoltura, alloggio, cibo e via dicendo. Nei campi di sfollati e nei villaggi si stanno diffondendo rapidamente molte infezioni e malattie respiratorie, degli occhi e della pelle e purtroppo i più esposti sono i bambini e le madri".

-In quale località avete situato la base operativa?
"La zona operativa è stata scelta sulla base di criteri molto semplici: gravità della situazione e possibilità e qualità dell'intervento che saremmo stati in grado di realizzare. Sono state quindi scelte le aree alla confluenza dei due maggiori fiumi causa del disastro: il fiume Indo e il fiume Kabul. L'area dei distretti di Charsadda e Mowshera non lontano da Pesawar sono infatti tra le più colpite, dove la devastazioni e la perdita di vite umane è stata tra le più violente. E' anche un'area che personalmente conosco abbastanza bene, avendo già lavorato in Pakistan negli anni scorsi e questo facilita un po' l'aziene potendo contare su una rete di contatti e collaboratori".

-Da quante persone è formato lo staff di intervento Intersos in Pakistan?
"In crisi del genere cerchiamo di predisporre una squadra piccola e dinamica aggiungendo collaboratori a seconda delle azioni che dobbiamo sviluppare. Per definire l'area, le modalità e i tempi di un'operazione, ad esempio una distribuzione di cibo, possono bastare 4 o 5 persone. Per svolgerla invece, è necessario distribuire il lavoro a circa 30 persone, dagli autisti dei camion agli addetti alle liste di distribuzione, allo scarico del materiale e così via. Generalmente molti di questi aiutanti provengono dalla comunità che si intende aiutare assicurandosi che la comunità stessa sia così pienamente coinvolta nelle operazioni a loro beneficio e non sia un mero ricevente dell'aiuto".

-In quali stettori siete specializzati?
"Abbiamo competenze diverse: logistiche, di protezione dell'infanzia e dei disabili, che in queste condizioni rischiano di venire esclusi dall'accesso agli aiuti, e infine di coordinamento, per assicurarsi che tutti si muovano secondo un piano comune sapendo perfettamente cosa fanno gli altri e dove devono intervenire loro".

-Ci sono anche altri veneti oltre a lei?
"In questo caso la squadra internazionale è tutta italiana. Abbiamo collaboratori liguri, trentini, laziali, ma per ora sono l'unico rappresentante del Veneto".

-Quali interventi avete già compiuto in quei luoghi?
"Abbiamo diviso l'operazione in tre fasi: prima emergenza, riavvio della normalità e ricostruzione. La prima sta lasciando spazio alla seconda, infatti se in alcune zone è ancora necessario distribuire cibo, acqua potabile e beni di primissima necessità, come pentole e stoviglie, in altri villaggi, dove le persone sono tornate alle loro case distrutte, si stanno organizzando dei piccoli sistemi di distribuzione dell'acqua e si stanno fornendo i materiale di base per costrtuire un tetto sotto il quale allestire almeno una stanza temporanea. Per la terza fase ci stiamo organizzando per intervenire a supporto del riavvio dei mezzi di sostentamento delle famiglie, in particolare supportando la ripresa della produzione agricola. Questo è un aspetto fondamentale. Solo se gli agricoltori saranno in grado di seminare e produrre, potranno garantirsi il futuro. Se noi falliremo questo obiettivo, il Paese scivolerà ancora più in basso, avrà bisogno di assistenza alimentare".

-Avete portato con voi materiali, quali?
"Questa cristi ha colpito il Pakistan soltanto pochi mesi dopo il terremoto di Haiti. Molte organizzazioni non aveno ancora raccolto fondi sufficienti per ripristinare i magazzini di materiali per l'emergenza. E' stato quindi necessario acquistare tutto direttamente in Pakistan, nelle zone non colpite e trasportarlo nelle zone di intervento. Abbiamo acquistato cibo, in particolare farina in sacchi, trasportato con cisterne l'acqua potabile per alimentare dei gossi serbatoi e conseguentemente le taniche di ogni famiglia. Stiamo procurando ghiaia, zappe, badili per ripristinare alcuni tratti di strade indispensabili alle famiglie per raggiungere i mercati e riprendere le attività. Infine stiamo procurando travi, teli di plastica e tegole per ricostruire i tetti delle case e piccole attività commerciali".

-Lei ha detto che non c'è solo il problema dell'acqua: quali altri problemi dovete affrontare oltre alle conseguenze dell'alluvione?
"Il Pakistan, in particolare, nelle zone citate, vive da anni una situazione di grave crisi politica. La zona di confine con l'Afganistan è molto turbolenta e insicura. Gli attentati si susseguono. Quelli gravi sono quasi quotidiani in questo periodo. L'attività di matrice talebana è un problema ben più noto di questa alluvione e di certo non semplifica l'azione umanitaria. Alcune aree sono di difficle accesso proprio a causa dell'insicurezza e delle minacce, ed il risultato è che la gente rischia di non ricevere l'aiuto. In questo momento si sta giocando una partita molto importante. L'aiuto umanitario ha tutte le possibilità di dimostrare tutti i valori che lo spingono e lo motivano. La solidarità internazionale, l'indipendenza, la neutralità e l'imparzialità. Le persone hanno molti bisogni e altrettante aspettative. Se a causa degli scarsi finanziamenti a questa crisi pressoché ignorata dai media italiani, non riusciremo a rispondere venendo incontro alle aspettative delle persone colpite, lo farà certamente quancun altro, riempiendo un vuoto che avremo lasciato noi occidentali, incapaci di accorgerci della gravità della situazione e di rispondere con quella convinzione e determinazione che ha permesso di raggiungere grandi risultati in altre catastrofi. Per citarne due: terremoto di Haiti e tsunami dell'Oceano Indiano. Abbiamo la possibilità di essere concreti e di dimostrare che i nostri valori si traducono in aiuto reale e tangibile dove e quando serve. Arrivare a mani vuote significa infrangere aspettative di chi dell'aiuto ha comunque bisogno e lo sercherà altrove".

-Noi cittadini comuni cosa possiamo fare eventualemente per alleviare le sofferenze e le difficoltà della gente colpita dagli eventi catastrofici in Pakistan?
"Sono proprio i cittadini comuni che fanno la differenza. La prima cosa da fare credo sia una riflessione. La seconda un'azione. Non esistono dolori di serie A o d serie B. Se vogliamo aiutare persone che soffrono, in questo momento in Pakistan c' è bisogno di aiuto e subito. Quello che mi preme sotolineare è che le vittime e le persone coinvolte in queste situazioni sono le famiglie. Non i governi, non gli eserciti. E le famiglie, come ovunque nel mondo, sono composte da bambine, bambini, madri, padri, anziani. Ognuno di noi può entrare in azione edare un aiuto concreto tramite le organizzazioni che sono al lavoro direttamente sul posto e che trasformano i contributi in sacchi di farina, in taniche d'acqua, in medicinali e via dicendo. L'organizzazione INTERSOS ha aderito all'apello di AGIRE, l'Agenzia italiana per le risposte alle emergenze, rete di organizzazioni che insieme hanno scelto di unire le forze per rispondere in modo tempestivo alle grandi emergenze umanitarie. E' possibile darci i mezzi per aiutare le persone in Pakistan con un semplice Sms di due euro al 45504 da Tim, Vodafone, 3, CoopVoce e Noverca o da rete fissa Telecom Italia fino al 27 settembre. Gli approfondimenti sono sul sito www.intersos.org e www.agire.it ".

-Probabilmente il discorso non si esaurisce qui. C'è anche qualcosa da aggiungere.
"La copertura dei media italiani di questa crisi è stata straordinariamente bassa e, anche a causa di questo, molte persone non hanno realmente capito la gravità della situazione. Purtroppo la crisi continua. L'equivalente di un terzo della popolazione italiana è in grave difficoltà e non è possibile rimanere fermi. Un aiuto da parte di tutti è ora determinante".

Il Gazzettino Illustrato: Venezia - Heysel andata (e ritorno)


Il Gazzettino Illustrato: Venezia - Heysel andata (e ritorno)


Il Gazzettino Illustrato: Venezia - Heysel andata (e ritorno)

Me la ricordo bene quella sera che diavoli sono usciti dall'inferno a danzare, macabri e truci, sugli spalti fatiscenti dell'Heysel a seminare la morte tra inermi famiglie di italiani accorse a vedere, lassù in Belgio, la finale Juve-Liverpool di Coppacampioni. Me la ricordo bene. Non si dimenticano i momenti assurdi in cui la morte di passa accanto e lascia sul terreno i segni del suo transito feroce e assurdo.
La notte riporta ancora l'incubo di quei corpi che rotolano giù dagli spalti mentre il pallone già pronto per la gara rotola anche lui lontano dai luoghi della vita e si perde come le anime di quei 39 poveri tifosi, che neri di tumefazioni e asfissia s'allineano disposti da mani pietose sul nudo selciato fuori dallo stadio tra urla di gente in lacrime e di sirene impazzite.

Come è cominciata la sera dei demoni inglesi dell'Heysel? Con una bandiera della Juve provocatoriamente bruciata davanti agli spalti del settore Z. La rete divisoria tra la follia delle creature infernali e qualla delle famiglie italiane - molte quelle venete - che con un charter avevano raggiunto Bruxelles da Venezia, viene scossa come un tamburello con un clangore di catene e la furia di chi sale le maglie metalliche della recinzione per cercare lo scontro fisico e il sangue.
La data è il 29 maggio 1985. Venticinque anni fa. E' una sera calda di primavera che quasi sconfina nelle temperature elevate di una precoce estate. Una lattina di birra con tutto il peso del suo contenuto e i bordi ferocemente affilati, schizza nell'aria e precipita sulla testa di un tifoso veneto dietro di me. L'aria pare attraversata da un lampo di morte: uno zampillo di sangue rosso che si confonde con i raggi purpurei del tramonto. Ma l'aria dilata anche un urlo di dolore raggelante che si distingue come un allarme che sovrasta l'inno di guerra "You'll never walk alone" che gli hooligans cantano brandendo minacciosi le aste delle bandiere verso di noi, folla inerme di famiglie con figli e nonni al seguito che occupiamo il settore Z della curva.

Il corpo cede sulle gambe sopraffatto dal dolore e da urla belluine e si spande l'odore sorprendente del sangue che prorompe dal cranio ferito mentre attorno gli amici sorreggono il corpulento compagno perché non stramazzi a terra di peso e gli tamponano la ferita con un candido fazzoletto che subito s'impregna d'un rosso scarlatto. Il rosso, filtrando tra le dita, dilaga gocciolando sul terreno nudo, scandendo come una clessidra cruenta il tempo del dolore e della fine.

La strage è cominciata. I corpi s'accalcano verso il muro che delimita il settore Z e la rampa di discesa che dal rettangolo di gioco s'insinua verso gli oscuri meandri sotterranei e fatiscenti dello stadio. Cinque, sei, sette metri di vuoto: una discesa appunto. Anche a saltare giù - e bisogna essere atleti ben allenati o semplici uomini disperati per per decidersi a saltare - non s'arriva a terra a pié pari. Eppure alcuni, pressati da coloro che ormai avevano violato il confine delimitato invano da una fragile rete salgono sul muro e cominciano a cadere di sotto fracassandosi le ossa. E sopra i primi cadono altri. La folla preme sul muro per sfuggire agli attacchi, per mettersi in salvo mentre gli hooligans dilagano per uccidere bandendo bastoni, sferrando pugni e calci, massacrando chi è a terra inerme. Inerme allo stesso modo di quando era in piedi in attesa dell'inizio della partita. Ma lo stadio è marcio. Anche il muro è marcio e non tiene più. Gli ultras del Liverpool sono marci di birra. Il muro crolla di schianto su coloro che sono già a terra, tutti rotti, sulla rampa. Quelli che si erano accalcati vanno giù come fantocci con le braccia che annaspano nell'aria e finiscono anche loro sulla rampa sopra i calcinacci sbriciolati che hanno sepolto coloro che erano caduti prima.

Intanto Rodolfo Sartor, uno dei responsabili del Club Juventus di Treviso e notissimo proprietario del pub Capriccio alla Mandonna Granda, mi afferra per un braccio e mi trascina verso il basso, verso il campo e così mi salva la vita. Nella recinzione metallica c'è una porticina. Siamo compressi sulla rete dalla folla che preme. Non si respira più. Rodolfo è alla mia destra anche lui con la faccia schiacciata alla rete. La porticina si scardina sotto la pressione. E' a dieci centimetri. Rodolfo con la forza della disperazione riesce a spingermi nel varco seguendomi. Insieme rotoliamo fuori verso la salvezza, ma giusto in tempo per prenderci una frustata da un poliziotto che ancora - come per altro tutti i suoi colleghi - non aveva realizzato che cosa era accaduto e si sentiva in dovere di frenare quella che a tutti gi effetti era un'autentica, inconfondibile, invasione di campo.

Lì, sulla rete, che noi ormai abbiamo lasciato, qualcuno sviene, qualcuno muore cercando invano un po' d'aria. Altri fuggono alla ricerca di riparo e salvezza. Altri ancora cercano di arrampicarsi sulle maglie della recinzione, altri ancora tentano di passarvi sotto. Quanti ne tiriamo fuori? Dieci, quindici, non so. Poi ci si ritrova a centinaia in mezzo al rettangolo di gioco. Vedo Bruno Schiavon, il famoso titolare del'osteria trevigiana Al ponte Dante, che soccorre alcuni feriti. Lui ha avuto la fortuna di essere risparmiato dall'orda di hooligans scatenati e armati, perché indossava il cappellino della Ferrari, rosso come i colori distintivi dell'orda furente e ubriaca. Per lui la Ferrari era un mito. E quel gadget per la testa preso a Monza era un'icona da esibire con orgoglio e con venerazione. Da quel giorno è il talismano tangibile di una fede salvifica capace di esorcizzare ogni personficazione del male. I diavoli sanguinari erano passati davanti e dietro di lui bastonando e urlando, facendo il vuoto sugli spalti. E lui - nonostante si trovasse proprio vicino alla rete di separazione tra i settori X e Z - era stato lasciato indenne e s'era ritrovato solo, incolume, sulle gradinate a guardare l'opera nefanda dei seminatori di morte, che per via del cappellino lo avevano scambiato per uno di loro.

Ormai la strage e compiuta: 39 morti (32 italiani, 4 belgi, due francesi, un irlandese) e seicento feriti.
Con un gruppo che si è affiancato a me (tra questi c'è anche Gaspare Lucchetta, uno dei fratelli titolari dell'Euromobil di Falzé di Piave), mi posiziono davanti all'accesso alla la tribuna d'onore protetta dallo schieramento di uno squadrone a cavallo. Agito un tesserino in pelle rosso-amaranto e chiamo il ministro Gianni De Michelis. I poliziotti a cavallo tra il tesserino dal colore regale e il grido "monsieur le ministre!" equivocano sul mio ruolo e mi fanno passare con tutto il gruppo. Raggiungiamo la tribuna e scendiamo nella sala interna dove tra i tavoli del sontuoso buffet allestito per le autorità si aggirano corpi macilenti e sanguinanti di feriti che hanno trovato rifugio e qualche cura lì dentro. Noi usciamo in strada. Sul selciato si allineano già una decina di corpi alcuni coperti con lenzuola, altri ancora a cielo aperto. Nessuno di loro ha le scarpe. Nessuno di loro...

Non me la sento più di ricordare tutti i particolari. La morte non è uno spettacolo da esibire anche se qui i corpi, che fino a pochi minuti prima erano persone, appaiono come testimoni inerti eppure urlanti di quali livelli di abiezione può coltivare la malvagità dell'uomo.

Giuseppe Spolaore, di Bassano, aveva 14 anni, allora. E' il figlio di Amedeo morto all'Heysel a 55 anni. Il giovane riportò la frattura di un femore. Ha detto recentemente: "Quella sera a Bruxelles si sono intrecciate e sovrapposte una serie di concause talmente consequenziali e perverse nel loro succerdersi da rendere tutto follemente dirompente. Sicuramente gli hooligans sono stati il fattore scatenante, ma anche l'assenza di polizia, la struttura inadeguata dello stadio, la mancanza di uscite di sicurezza, la tipologia di persone che si trovavano in quel pezzo di curva, l'organizzazione carente hanno fatto il resto". Tecnicamente è stato proprio così. Umanamente no. Perché se il tempo lenisce il dolore di certo non guarisce le ferite dell'anima. E' per questo che bisogna ricordare. Ricordare tutti: Rocco Acerra 29 anni, Bruno Balli 50, Alfons Bos, Giancarlo Bruschera 21, Andrea Casula 11, Giovanni Casula 44, Nino Cerullo 24, Willy Chielens, Giuseppina Conti 17, Dirk Daenecky, Donisio Fabbro 51, Jaques Francois, Eugenio Gagliano 35, Francesco Galli 25, Giancarlo Gonelli 20, Alberto Guarini 21, Govacchino Landini 50, Roberto Lorentini 31, Barbara Lusci 58, Franco Martelli 46, Loris Messore 28, Giovanni Mastrolaco 20, Sergio BastinoMazzino 38, Luciano Rocco Papaluca 38, Luigi Pidone 31, Benito Pistolat 50, Patrick Redcliffe, Domenico Ragazzi 44, Antonio Ragnanese 29, Claude Robet, Mario Ronchi 43, Domenico Russo 28, Tarcisio Salvi 49, Gianfranco Sarto 47, Amedeo Spolaore 55, Mario Spanu 41, Tarcisio Venturin 23, Jean Michel Walla, Claudio Zavaroni 28.

Che dire di più? Che le autorità ci volevano spedire via subito in aereo perché non volevano grattacapi, ma che noi - i vivi - restammo compatti al'ingresso dell'aeroporto fermi nella volontà di cercare negli ospedali tutti i feriti per portarli a casa con noi. E così fu nonostane le minacce e nonostante alcuni venissero "deportati" con i pullman verso un altro scalo distante più di 60 chilometri e spediti a Venezia. Così fu, appunto.

Oggi dell'Heysel è stato cancellata ogni pietra. Lo stadio della morte è stato demolito. Al suo posto nel 2000 è stato costruito uno stadio moderno intitolato all'anima buona di re Baldovino, quasi a esorcizzare quel luogo di morte. Heysel, il nome Heysel e quello che vi accadde, rimane tuttavia nella memoria collettiva dell'Europa come uno dei luoghi dove il male si è manifestato in tutta la sua abbietta potenza in una sera calda di primavera che quasi sconfinava nelle temperature elevate di una precoce estate.